Artemisia Gentileschi – Coraggio e passione
a cura di Costantino D’Orazio
Genova, Palazzo Ducale, fino al 1° aprile 2024
Lunedì dalle ore 14 alle 19 – martedì, mercoledì e giovedì dalle ore 9 alle ore 19 – venerdì dalle ore 9 alle ore 20 – sabato dalle ore 10 alle ore 20 – domenica dalle ore 10 alle ore 19
(la biglietteria chiude sempre un’ora prima).
La mostra è promossa e organizzata da Arthemisia con Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura, Comune di Genova, Regione Liguria e rientra nell’ambito delle iniziative di Genova Capitale Italiana del Libro 2023.
Visitare la mostra “Artemisia Gentileschi – Coraggio e passione” vuol dire condividere l’esperienza con un gran numero di persone, che in questo periodo festivo letteralmente riempiono le sale di Palazzo Ducale; vuol dire attendere pazientemente che un po’ di spazio si faccia per poter guardare i quadri con la dovuta attenzione e dall’angolatura più favorevole, il che lascia supporre che alla sua chiusura l’esposizione si risolverà in un pieno successo quanto al numero dei visitatori.
Complessivamente soddisfacente la scelta dei più di cinquanta pezzi, la loro collocazione e la  suddivisione in dieci aree tematiche: quella collocata all’inizio del percorso, dopo una sala dedicata alle due splendide tele con soggetto “Susanna e i vecchioni” (il primo lavoro di Artemisia, che riprende il soggetto alla fine della sua parabola), è intitolata “Il talento delle donne tra il ‘500 e il ‘700” e mostra ritratti e autoritratti di donne illustri, non solo pittrici, che sono autrici oppure soggetto delle tele, dove accanto all’autoritratto di Artemisia come allegoria della pittura stanno quelli di Sofonisba Anguissola, le figure di Angelica Kaufmann (ritratta da Francesco Manno), di Lavinia Fontana, di Giovanna Garzoni nella tela di Carlo Maratti, di Properzia De Rossi (di autore anonimo) e il ritratto di Marta Rosa a opera di Francesco Rosa, un tempo ritenuto raffigurare il volto di Rosalba Carriera, della quale è esposta una “Fanciulla con colomba” dipinta a tempera su avorio. E si prosegue nell’esplorazione (“Artemisia alla bottega del padre”) mediante il confronto diretto tra l’opera di Artemisia e quella di Orazio, del quale è anche la modella prediletta (oltre che apprendista) e che vediamo nei panni di Santa Cecilia alla spinetta e di una “Giovane donna come sibilla”.La ritroviamo ritratta, unica figura che non suona né canta, in quel capolavoro che sono gli affreschi del Casino delle Muse in Palazzo Pallavicini Rospigliosi a Roma (all’epoca Palazzo Borghese), realizzati a quattro mani da Orazio Lomi Gentileschi e Agostino Tassi con la presenza di Artemisia. L’influenza della bottega paterna è palese nella ”Allegoria della scultura”, del 1620 circa, alla quale però la visione dall’alto conferisce un forte tratto personale, mentre nella “Madonna con bambino” (1616-1618) la piega delle labbra, l’abito popolare che contrasta con una veste lussuosa, la scelta cromatica della veste, un inedito rosa di grande intensità che richiama una femminilità tutt’altro che sacrale, l’atto di porgere un seno scoperto, rivelano una sensibilità e una personalità inconfondibili. Artemisia gestisce con maturità le sue modelle e le ritrae al naturale, seguendo le orme del padre (a sua volta ispirato dal Caravaggio, con il quale ebbe contatti personali), spesso superandolo proprio nel realismo delle figure femminili. Un altro dei temi dirimenti è quello delle donne minacciate nell’incolumità e nella reputazione, figure bibliche, letterarie e storiche che hanno vissuto l’atrocità della sopraffazione da parte degli uomini, come avvenne alla pittrice, la cui vita fu contristata da un padre-padrone, da un delinquente (anche se artista dotato) che abusò di lei, da un marito inadeguato e megalomane. In analogia con la vicenda di Susanna, ecco “Betsabea al bagno” nella tela originale di Artemisia e nella tessitura ad alto liccio di Pietro Lefebvre, che la riproduce in dimensioni maggiori su commissione del Granduca di Toscana; poi la toccante rappresentazione di Paolo e Francesca (1625-1630), di intensa espressività e “La morte di Cleopatra” del 1635, notevole per la resa della luce, di importanza primaria, impiegata differentemente dall’uso che ne fa Caravaggio: la luce definisce due campiture ben delimitate, con la protagonista in primo piano e in piena luce; alle sue spalle vi è la zona d’ombra, con le due ancelle Charmion e Iras quasi mimetizzate nei panneggi dello sfondo.

Le eroine di Artemisia sono figure celebri per virtù, che non cedettero agli uomini, o che addirittura trionfarono su di essi, a cominciare dalle diverse rappresentazioni di Giuditta e Abra con la testa di Oloferne. In quella del 1645-1650 una linea diagonale di tensione, marcata dalla luce, ci fa leggere diversi piani in una studiata gerarchia: solo un riflesso rivela l’armatura del comandante assiro, Giuditta al centro riceve in pieno il raggio e l’ancella, inginocchiata mentre avvolge la testa in un panno insanguinato, ne è lambita. La versione del 1640-1645, scelta come immagine guida della mostra, è eseguita sulle tracce di quella realizzata dal padre ed esposta nella stessa sala per opportuna comparazione: se la postura delle figure è praticamente identica,  Artemisia mette in atto una maggiore tensione nell’espressione dei volti (non trionfante né ispirata, ma seria e compenetrata dall’entità dell’atto appena compiuto) nonché da un chiaroscuro più marcato, di matrice caravaggesca. In quella giovanile del 1607-1610 Giuditta indossa ancora la veste elegante e i gioielli (strumenti della seduzione) mentre ostende il capo mozzato. Vi sono affiancate altre due rappresentazioni di Cleopatra, il suicidio di Lucrezia, la Maddalena; vi è poi una sala interamente dedicata al tema di Sansone e Dalila. A corollario dei filoni principali, le sale dedicate al caravaggismo e ai caravaggeschi in Liguria, a Orazio nella Roma criminale e durante il suo soggiorno a Genova, definiscono la temperie storico-artistica nella quale lo straordinario talento della pittrice si manifestò.  Quale nota dolente della mostra vi è l’eccessivo rilievo che viene dato dell’episodio più noto della biografia di Artemisia, vale a dire la violenza subita da parte di Agostino Tassi (col quale il padre collaborava e al quale l’aveva affidata quale apprendista), la cui trattazione a nostro avviso è insoddisfacente e condiziona indiscutibilmente la percezione del grande valore dell’opera di Artemisia da parte del pubblico. In posizione centrale al percorso è situata la sala che rievoca la prima aggressione del Tassi alla giovane: vi è rappresentata la camera da letto teatro della violenza, con una video-installazione a tinte fosche di gusto horror, che, in mezzo ai tanti capolavori esposti, urta il buon gusto con una notevole caduta di stile. L’episodio è fondamentale per la biografia dell’artista e non va in alcun modo sottaciuto, ma il conferirgli un’evidenza così macroscopica dà alla fruizione un viraggio in direzione del morboso; consideriamo inoltre che lo stupro è l’argomento principale del testo nel video introduttivo e che l’argomento è trattato anche nelle didascalie, oltre che in un’area dedicata al processo di Agostino Tassi. A nostro avviso, se la cosiddetta stanza della violenza non fosse stata realizzata, l’esposizione ne avrebbe senz’altro guadagnato.
Piuttosto che puntare sull’attrattiva esercitata dagli aspetti scabrosi, facendo così torto una volta di più all’artista (e indirettamente a tutte le donne vittime di violenza) con la spettacolarizzazione del suo dramma, sarebbe stato invece opportuno dare la massima evidenza all’analisi critica dello stile di Artemisia e proporre quale argomento principale il suo uso della luce, la pregnante espressività delle figure nell’evoluzione dalle opere giovanili a quelle della maturità (anche in relazione al contesto e agli aspetti di rilevanza biografica), le sue soluzioni cromatiche e i molti altri aspetti della sua genialità.

 

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