di Stefano Torboli
Torino, Teatro Regio, 24 marzo 2024, ore 15
La Fanciulla del West
Opera in tre atti
Libretto di Guelfo Civinini and Carlo Zangarini
tratto dal dramma The Girl of the Golden West di David Belasco
Musica di Giacomo Puccini
Prima rappresentazione assoluta:
New York, Metropolitan Opera, 10/12/1910
Francesco Ivan Ciampa direttore d’orchestra
Valentina Carrasco regia
Carles Berga e Peter van Praet scene
Silvia Aymonino costumi
Gianluca Mamino Direttore della fotografia
Peter van Praet luci
Lorenzo Nencini assistente alla regia
Chiara La Ferlita assistente alle scene
Agnese Rabatti assistente ai costumi
Ulisse Trabacchin maestro del coro
Orchestra e Coro Teatro Regio Torino
Nuovo allestimento Teatro Regio Torino
PERSONAGGI E INTERPRETI
Minnie Jennifer Rowley
Jack Rance Gabriele Viviani
Dick Johnson (Ramerrez) Roberto Aronica
Nick Francesco Pittari
Ashby Paolo Battaglia
Sonora Filippo Morace
Trin Cristiano Olivieri
Sid e Billy Jackrabbit Eduardo Martínez (Regio Ensemble)
Bello Alessio Verna
Harry Enzo Peroni
Joe Enrico Maria Piazza (Regio Ensemble)
Happy Giuseppe Esposito
Larkens Tyler Zimmerman (Regio Ensemble)
Wowkle Ksenia Chubunova (Regio Ensemble)
Jake Wallace Gustavo Castillo
José Castro Adriano Gramigni
Un postiglione Alejandro Escobar
In questo periodo al Teatro Regio di Torino sta avvenendo un piccolo miracolo. Un teatro che nell’anno pucciniano (100 anni dalla morte del maestro lucchese) mette in scena ben sei titoli, tra i quali scelte che raramente si vedono in scena, è davvero ragguardevole. Tra queste c’è posto anche per La Fanciulla del West, settima opera di Puccini in ordine cronologico, che riserva un ruolo speciale e particolare tra le fila della sua composizione. Importante per ardimento tecnico, drammaturgia e tappeto orchestrale variopinto, La Fanciulla è un’opera che un amante pucciniano deve assolutamente inserire all’interno della propria esperienza di teatro. La rarità della sua esecuzione è principalmente riconducibile alla difficoltà di messa in scena, in cui regia, cast e direzione d’orchestra devono interagire in sintonia per dare un senso compiuto ad una tale monumentalità. C’è, infatti, il discorso del grande numero di personaggi dell’opera (18, contando anche i comprimari) e della dimensione dell’orchestra (ancora più grande della già maestosa Turandot). La ricerca timbrica effettuata da Puccini in questa opera ha indubbiamente gettato le basi per gli ultimi suoi capolavori: il Trittico e Turandot. Il cast di questa produzione si rivela decisamente all’altezza nel portare a termine questa fatica erculea. Ma andiamo per ordine: alla regia troviamo Valentina Carrasco che porta in primo piano l’ambientazione dell’opera e il cinema ad esso correlato, un istintivo collegamento trovato anche in altre produzioni (Teatro alla Scala 2015/2016 o Stoccolma 2013, per esempio). Tuttavia, a differenza di queste produzioni, in cui il cinema era suggerito da qualche indizio velato (una proiezione in bianco e nero di Minnie a cavallo che buca letteralmente la quarta parete, uscendo quindi in scena vestita da cowgirl, oppure il pubblico che si appresta ad entrare al cinema a vedere The girl of the golden west), qui vediamo una trasposizione in chiave cinematografica per nulla edulcorata: in scena compaiono macchine da presa, cameraman, sceneggiatore, truccatore, catering e attrezzisti. Prendono parte saltuariamente anche due figure iconiche del cinema western: “Ennio” (Morricone) e “Sergio” (Leone), dedica diretta alla storia cinematografica italiana. Il risultato è una forma di metateatro (o metacinema?) che descrive la giornata in uno studio cinematografico, dove al suo interno vediamo il susseguirsi della scenografia di La Fanciulla del West. Un maxischermo al di sopra del boccascena riproduce in diretta alcune inquadrature e particolari di quello che avviene in scena. Scelta registica azzeccata, che dona alla febbrile successione di eventi dell’opera un’omogeneità di insieme. Da notare, tuttavia, alcune scelte che creano qualche perplessità: la non continua presenza dei cameraman sulla scena (perché alcune volte sì e alcune no?); movimenti attigui alla vera scena dell’opera che distraggono l’azione dai cantanti, come nell’aria di Minnie Laggiù nel Soledad con il trasporto di un cavallo finto; la scena del bacio tra Minnie e Johnson che perde intimità a causa della presenza in scena di telecamere e cameraman; Johnson al grido di “debbo uscire” ma che si trova già fuori dell’abitazione di Minnie; il ciak durante la scena dell’impiccagione.
Quello che rimane forse più discutibile, è stata la scelta all’inizio del secondo atto, che vedrebbe l’introduzione affidata ai due indiani pellerossa al servizio di Minnie. Qui vengono svestiti dal loro ruolo nel racconto e impersonati come attori che ripassano molto contrariati il copione. Vediamo quindi l’indiana Wowkle che si rifiuta di obbedire all’ordine di Minnie di “va via” o “zitta e pulisci” con lamentele silenziose nei confronti del regista. Ad ornare la scena una silente manifestazione di “Native lives matter” che avviene a bordo palco. Insomma, un non poco occulto occhiolino all’attualità del politicamente corretto e della cancel culture, che va a rovinare l’ambientazione sonora e drammaturgia del momento, andando così a creare un momento di leggerezza quasi tendente al ridicolo.
Di grande pregio, invece, la scelta del maxischermo a cui spetta il compito di proiettare in presa diretta alcune inquadrature peculiari della scena. In questo modo si può vedere come Johnson sia nascosto dietro alla mobilia nel secondo atto, oppure dei primissimi piani nei momenti topici (l’impiccagione del terzo atto, l’entrata di Minnie nel primo atto). Come in un vero film, non mancano gli effetti speciali: dagli spari in scena al sangue, elemento che compare intelligentemente nella scena della scoperta del corpo di Johnson nascosto in soffitta da parte dello sceriffo Rance, con un membro della troupe che fa gocciolare da una pipetta delle gocce di sangue. Una menzione speciale va alle luci e alla scenografia, di Peter van Praet e Carles Berga. Notiamo un attento studio di luci nella capanna di Minnie per indicare l’interno e l’esterno di essa, oppure alla fine dell’atto, sul boccascena durante il gioco di carte, le ombre dei personaggi che roteano all’impazzata. La foresta che fa da sfondo al terzo atto rende l’idea di profondità grazie all’utilizzo di vari livelli di pannelli. Come conclusione nostalgica, nel finale dell’opera tutte le scenografie sono presentate accatastate in fondo al palcoscenico. Ma veniamo a noi. La recita pomeridiana di domenica 24 marzo vede un teatro al limite della sua capacità. Solo alcuni posti nelle ultime file rimpiangono un occupante. Si percepisce nell’aria una grande attesa. Spetta all’americana Jennifer Rowley vestire i difficili panni di Minnie, ruolo scritto per la gran parte nel registro medio della tessitura di soprano. La vediamo fin dall’inizio faticare a bucare l’orchestra. Al primo ascolto, può sembrare uno squilibrio di bilanciamento con la buca, ma ci si ravvede subito dal momento in cui si sentono i suoi colleghi in scena. Nell’aria Laggiù nel Soledad, momento musicale affidato agli archi e a qualche fiato, la sua voce viaggia libera e armoniosa, senza problemi. Nel duetto con il tenore Johnson/Ramerrez c’è affiatamento e possibilità di espressione. La sua capacità attoriale le permette di reggere la scena e di donare al pubblico emozionanti momenti di alto valore (per esempio la scena della partita a poker).
Lo sceriffo Rance, impersonato dal baritono Gabriele Viviani, non ha problemi a far passare la propria voce, il che lo rende un ottimo coprotagonista del racconto. Nell’aria del primo atto Minnie, dalla mia casa son partito presenta un canto legato con grande potenza vocale, bel timbro e piena intelligibilità testuale. Si rivela un ottimo interprete di questo tipo di ruoli che può includere il temibile Scarpia della Tosca. Roberto Aronica, presenta un bandito Johnson/Ramerrez già rodato molte volte in passato (Teatro San Carlo e Teatro alla Scala) e difatti si presenta con piena padronanza del ruolo, compresi i tre si bemolli della “vergogna” nell’aria del secondo atto. In quella che forse è l’unica vera aria in forma chiusa dell’opera, Ch’ella mi creda libero e lontano, Aronica convince tutti i presenti delle proprie capacità, regalando un momento di prezioso contenuto artistico. Nei comprimari spiccano il basso Paolo Battaglia (Ashby) con una perfetta entrata iniziale con timbro tonante e proiettato, Filippo Morace (Sonora) soprattutto per la chiusura dell’opera, il tenore Francesco Pittari (Nick, il barista) anche se alle volte fatica a farsi spazio. Il coro (in quest’opera solo maschile), guidato dal maestro Ulisse Trabacchin, offre dei rari momenti di bellezza corale: intonazione perfetta, ottima presenza scenica e dizione impeccabile. Un’opera da andare a vedere anche solamente per il coro della nostalgia del primo atto. Pura bellezza. Lasciamo uno spazio d’onore al direttore d’orchestra Francesco Ivan Ciampa, al debutto con questa partitura intricatissima. Se questa è la qualità che si propone ad un esordio con un titolo del genere, non ci si può che aspettare grandi risultati dalla bacchetta campana di Ciampa. L’attenzione rigorosa alle nuances timbriche offerte da Puccini, ci regala momenti davvero preziosi. Pensiamo all’arpa/banjo del primo atto, gli archi con arco battuto nel secondo atto, oppure le trombe e gli oboi a 3 nel momento dell’arrivo di Minnie nel terzo atto. La gestione delle sonorità dell’orchestra è mantenuta rigorosamente ad un livello di comprensibilità del canto, permettendo ai solisti di esprimersi al meglio. Non mancano le grandi esplosioni sonore che sottolineano i momenti più drammatici dell’opera.
Durante i sette minuti di applausi, non possono mancare i titoli di coda, proiettati sul maxischermo che chiudono questa magnifica serata. Si ha ancora tempo martedì 2 aprile per cogliere l’occasione di vedere una rarità all’interno della produzione pucciniana, che abbandona il lirismo delle opere precedenti e che dà spazio alla pura azione scenica.