Sara Maino
Quaderno armeno. Hotel Praha, Yerevan
Nous Editrice (CT), 2023
Ma perché si chiama Hotel Praha?
Non si chiama più così. Una volta si chiamava Hotel Praha. Adesso è l’Hotel Arabkir.
Ah. E perché?
Perché una volta era un ristorante.
E allora perché continuate a chiamarlo Praha?
È così. È l’Armenia
.
E’ questa una frase scambiata tra Sara, l’autrice e protagonista del romanzo e Violet/Manushak, casuale guida in questo complesso mondo in sospensione, che identifica il complesso rapporto dell’Armenia con la sua storia in bilico tra passato e l’odierno, fatto ancora di popolazioni in fuga e un abbarbicarsi ad una solida identità culturale che permette a loro di sopravvivere in un mondo che non accetta isole etniche.
Il libro è stato presentato in prima assoluta alla Biblioteca B. Ememert di Arco il 22 settembre, prima di una serie di presentazioni che hanno portato la nostra autrice a Bruxelles agli inizi di novembre e che proseguiranno per tutto il mese di novembre.
Quaderno armeno si può definire un diario di viaggio, ma non è una esplorazione geografica, o un saggio di etnomusicologia visto l’intenzione dell’autore; il termine più corretto forse potrebbe essere quello di racconto di formazione per descrivere anche un percorso di scrittura che dal viaggio intrapreso nel 2003 in Armenia venne alla luce solo nel 2023 a 20anni di distanza. Fu una ricerca di etnomusicologia per la tesi di laurea che spinse nel 2003 Sara Maino a intraprendere un viaggio in Armenia, una ricerca alla scoperta delle origini della musica liturgica iniziato da un lungo percorso di conoscenza di questo lontano mondo musicale fatto di ascolti casuali in casa di un appassionato, non musicista ma collezionista di dischi, Luigi Boniolo, per anni componente del direttivo Amici della Musica di Riva del Garda.
Avrebbe dovuto trattarsi di un viaggio studio accuratamente organizzato in collaborazione con l’Università di Trento, con indirizzi certi e contatti sicuri. Per una serie di disavventure causate dalla mancata disponibilità del suo contatto principale nella capitale, l’autrice verrà fagocitata dal suo arrivo in suolo armeno da una famiglia di rifugiati ospiti in un albergo fatiscente, dove il degrado risulta insopportabile, dove non ci sono turisti o armeni locali ma profughi della guerra del Nagorno Karabakh, alloggiati dal 1996; un rifugio dove una umanità dolente tenta di cancellare un vissuto che non ha futuro. Ecco che il viaggio, puntigliosamente organizzato alla ricerca di un consolidato e mitizzato passato, diventa l’esplorazione di una umanità dolente e dispersa e quello che doveva essere un saggio di etnomusicologia diventa, dopo esattamente 20 anni, un diario-racconto di straordinaria efficacia descrittiva di un dramma in atto: quello degli armeni del Nagorno-Karabakh profughi dall’enclave armena in Azerbaigian.
Proprio nei giorni di questo settembre 2023, in cui si presentava il libro, ecco che improvvisamente la questione armena riemerge con tutta la sua drammaticità: un’offensiva dell’Azerbaigian contro l’enclave dell’autoproclamata Repubblica armena di Artsakh ha generato un nuovo esodo verso la capitale armena. Scontri, morti, oltre centomila sfollati una catastrofe umanitaria che evoca lo spettro del genocidio del 1915 e sembra la fotocopia dell’esodo del 1992, documentata per voce dei sopravvissuti dalla penna di Sara.
Viaggia leggera la scrittrice perché il suo soggiorno in terra armena era breve, solo 8 giorni, e ci offre una meticolosa descrizione di quanto le possa servire nel suo viaggio di studio: uno zaino e oggetti per la registrazione, libri, un quaderno verde, guide turistiche aggiornate ma non solo: compagno di viaggio Osip Mandelštam con il suo Viaggio in Armenia che il poeta russo scrisse nel 1930 durante il suo viaggio nel Caucaso. Assieme, la memoria di una melodia perduta nel tempo di Komitas Vardapet, cantore della musica della chiesa armena, assieme alle raccomandazione del console onorario dell’Armenia in Italia, Pietro Kuciukian, a cui si deve la prefazione. Diario di viaggio, ma anche di un percorso di conoscenza di altre storie, di quella varia umanità che vive reclusa dalla fine degli anni ’90 nell’albergo Praha alla periferia di Yeveran, da cui non si scorge il monte Ararat, montagna sacra dell’Armenia, ma in territorio turco. Per un equivoco, Sara Maino si trova per qualche giorno a condividere lo spazio con i profughi dal Nagorno-Karabakh catapultata una sorta di accoglienza, non si sa per quanto casuale o voluta, da parte di umanità racchiusa in una stanza, n. 406, di questo albergo come se volesse essa stessa affidare la sua esistenza alle righe dell’autrice. Proprio dal contatto con Violet/Manushak, a cui viene affidata da un equivoco contatto armeno, che l’autrice viene a conoscenza di una realtà che non ha nulla di turistico, ma che l’accompagnerà in un progressivo disvelamento della realtà dell’odierna Armenia, con le sue storie che si perdono nella notte dei tempi. Nella scrittura rapida e immediata, Sara Maino descrive la presa di coscienza di una città tramite le sue descrizione sonore, una città immersa in un” frastuono metallico”. Non bisogna, infatti, dimenticare che l’autrice conduce laboratori sulla registrazione dei suoni ambientali come strumento di stimolo per consolidare relazioni attraverso l’educazione ad un ascolto consapevole. Così si mette in ascolto, tra testimonianze vive di storie dirette non filtrate dai media, delle voci, dei suoni e delle musiche che la città fa filtrare, come una melodia del Duduk, il flauto tradizionale, emerso da un parco urbano o dalla musica che esce da un negozio di dischi con la voce del soprano armeno Lusine Zakarian, mentre tra un acquisto di dischi ecco che riemergono le musiche di Komitas Vardapet il cantore della musica sacra armena. Non esistono dialoghi ma la scrittura in prima persona fa scaturire gli interlocutori in forma immediata e diretta dal contesto narrativo. Finalmente, dopo tre giorni di incertezze, la nostra autrice riesce a trovare la strada per intraprendere la sua ricerca musicale, con incontri con i padri della chiesa Mechitarista armena che riescono a indirizzarla presso i principali luoghi di culto in prossimità della capitale, come una nuova sistemazione alberghiera con vista sul monte Ararat. Ma non per questo abbandona la sua guida, Manushak che diventerà compagna di esplorazione, in questa esperienza di ascolto delle suggestive melodie liturgie, un modo per lei di riacquisire una nuova presa di coscienza della propria identità.
Ecco che il Quaderno armeno comincia a prendere la forma di diario sonoro, documentazione di una esplorazione anche mistica della musica liturgica lungo un percorso che la porta nei centri principali della religiosità armena da Echmiadzin, cattedrale di suoni, dove assiste al rito della consacrazione di sacerdoti, al monastero di Geghard, al tempio di Garni, alla ricerca della sorgente della tradizione corale. A questo punto la narrazione di Sara si fa saggio per alcune pagine. Ma sarà un canto improvviso e spontaneo che si innalza dalla penombra del monastero di Geghard, una voce di soprano che intona Ur Es Mayr Im a farle ritrovare le motivazione di questo viaggio nel riconnettersi con l’armonia dei suoni che tiene assieme l’esistenza e che diventa rituale. Ultima immagine dall’Armenia, nella cittadina di Tsaghkandzor in una giornata piovosa, su una scalinata, una coppia di anziani: all’improvviso lui estrae uno strumento e si mette a suonare, lei a cantare vestita con un costume tradizionale, e poi a ballare davanti a Sara e alla sua compagna di viaggio.
Nulla si è perso delle esperienze umane di questo viaggio; fin dove è stato possibile si sono mantenuti i contatti fino a che le vite non si sono dissolte: Manushak non c’é più, ma la sua famiglia ha dato il nome di Sara ad una nuova nata. A lei e a Manushak è stato dedicato il libro, quel quaderno di appunti verde messo dello zaino, perché verde è proprio la copertina di questo lungo racconto.