La messa in scena di “La gazzetta”, quale secondo titolo in cartellone per il 43° Rossini Opera Festival, mercoledì 10 ha fatto il pieno al Teatro Rossini di Pesaro.
Rappresentata per la prima volta il 26 settembre 1816 al Teatro dei Fiorentini di Napoli, quest’opera buffa rossiniana si avvale del libretto di Giuseppe Palomba, che lo ricavò dalla commedia “Il matrimonio per concorso” di Carlo Goldoni, sfruttando la precedente riduzione librettistica di Gaetano Rossi per la musica di Giuseppe Mosca (Milano, Teatro alla Scala, 1814); a sua volta, il libretto di Palomba fu rivisto da Andrea Leone Tottola. Come ricorre in molti titoli rossiniani, abbiamo anche qui diversi casi di autoimprestito: alcuni brani furono ricavati da “Il Turco in Italia” e da “La pietra del paragone”; a loro volta, alcuni brani della gazzetta (tra cui la sinfonia) furono trapiantati nella “Cenerentola”. “La gazzetta” è sempre stata poco rappresentata: inizialmente fu Rossini stesso a non puntare sul suo successo al di fuori di Napoli. Scritta su misura per il buffo napoletano Carlo Casaccia, nel corso dell’Ottocento fu ripresa una sola volta; nel Novecento la sua fortuna fu inficiata da incongruenze nella partitura, mutila del Quintetto del primo atto.
Ai giorni nostri l’opera è stata messa in scena al ROF nel 2001 e ripresa poi nel 2005 (con Stefania Bonfadelli, Pietro Spagnoli e Bruno Praticò) per la regia di Dario Fo, dove una parte declamata sostituiva il quintetto mancante. Nel 2011, per merito del bibliotecario Dario Lo Cicero, negli Archivi della Collezione del Conservatorio di Palermo è stata ritrovata la musica del quintetto del primo atto, considerata ormai perduta; la prima rappresentazione basata sull’edizione critica dell’opera (curata da Philip Gossett e Fabrizio Scipioni) ha avuto luogo nel 2013 al New England Conservatory; a questa sono seguite le repliche del 2014 a Liegi e quindi l’allestimento del 2015 al ROF, per la regia di Marco Carniti, che quest’anno viene riproposta. Nelle note di regia Carniti ci informa di avere scelto gli anni Cinquanta per l’ambientazione, perché “erano gli anni delle grandi novità culturali e Parigi era considerata la New York di oggi. Tutto passava per Parigi: arte, moda, letteratura, musica, teatro. Ed è proprio in questo clima di modernità che nasce l’idea di un amore fuori dagli schemi e libero da imposizioni sociali. Un modello di amore che non conosce diversità socio-culturali. Un amore moderno. Il mondo cambia e anche l’amore cambia, proiettandosi oltre i propri confini territoriali e sociali. Rossini mette al centro una donna che combatte per la libertà dei suoi sentimenti, un amore che accetta il diverso, per estrazione sociale e per cultura”. Carniti vuole così caricare l’impianto leggero di quest’opera buffa con tematiche di critica sociale (proprie peraltro del teatro goldoniano, che lontanamente ne è all’origine) e di farlo valere, nella nostra epoca in cui le migrazioni dei popoli sono uno dei temi centrali della cronaca europea, come affermazione di libertà dei sentimenti.
La storia inizia col tentativo di don Pomponio Storione, napoletano ambizioso e megalomane (ex cameriere, ora ricco mercante), di trovare a Parigi un marito per la figlia Lisetta mediante un annuncio stampato sulla “Gazzetta”. L’annuncio, letto nel sofisticato e disincantato ambiente parigino, desta ilarità e scherno nei confronti del rozzo parvenu Pomponio. Si sviluppa quindi un articolato gioco di burle, inganni ed equivoci, dato che Lisetta è già segretamente impegnata col locandiere Filippo, proprietario dell’Hotel Aquila dove si svolge la parte determinante della commedia. A complicare la vicenda è il conte Alberto, in cerca di moglie, che sulle prime chiede a Pomponio la mano della figlia come promesso nell’inserzione , che poi si innamora della giovane Doralice, indicatagli ingannevolmente da Filippo come la ragazza dell’annuncio. Doralice, però, è stata promessa dal padre Anselmo a Monsieur Traversen. La cosa si complica ulteriormente: per evitare che la tresca tra lui e Lisetta venga scoperta, Filippo dichiara di essere sposato con Madama la Rose, complice quest’ultima, scatenando così la gelosia di Lisetta. Alberto smania di gelosia per Doralice, per riuscire a sposare Lisetta, Filippo si presenta a don Pomponio sotto le spoglie di un ricco quacchero (surrealmente rappresentato come cinese), ma lei, ancora gelosa, rifiuta la sua mano. Dopo riappacificazioni, duelli e una caotica festa in maschera, la verità viene a galla e Anselmo e Pomponio si vedono costretti ad acconsentire ai due matrimoni. La parte di don Pomponio, tutta in dialetto napoletano, è il vero e proprio cardine dell’opera.
Della “prima” per il ROF 2022 si può dire che, nonostante il positivo successo di pubblico, manca l’obiettivo sotto diversi aspetti. Il pur bravo Carlo Lepore, nel ruolo di Pomponio, non mette in campo quella statura da mattatore che richiederebbe il personaggio, eccessivo nel ridicolo e travolgente nella sua sicumera. La compagnia di canto include Maria Grazia Schiavo quale Lisetta, Giorgio Caoduro nel ruolo di Filippo, Martiniana Antonie come Doralice, Alejandro Baliñas (Anselmo), Pietro Adaini nella parte di Alberto, Andrea Niño (Madama La Rose), Pablo Gálvez (Monsù Traversen) ed Ernesto Lama nella parte muta di Tommasino, che già aveva sostenuto nel 2015. La scenografia di Manuela Gasperoni punta sul minimale e su tonalità anodine di grigio, le luci sono allestite da Fabio Rossi, Maria Filippi ha curato i costumi.
Valida la direzione di Carlo Rizzi sul podio dell’Orchestra Sinfonica “G. Rossini” e del Coro del Teatro della Fortuna di Fano (preparato da Mirca Rosciani), che ha saputo guidare evidenziandone l’espressività e ha costruito una solida sincronia tra la buca e il palcoscenico. Le doti degli artisti, che per alcuni si uniscono a una professionalità collaudata, non brillano pienamente a causa di un’impostazione che non punta sulla vera comicità, sulla leggerezza, sull’iperbole unita a futile superficialità che costituiscono il carattere basilare dell’opera. Le parti sono cantate con bravura, ma con troppa serietà, manca quella verve che alleggerisce l’azione e che conquista. Peraltro, Pietro Adaini si fa apprezzare per il bel timbro e la dizione chiara, Giorgio Caoduro si conquista un’ovazione a scena aperta nella sua impegnativa aria di catalogo, le voci femminili sono tutte all’altezza delle parti, il famoso Quintetto, come pure duetti e terzetti funzionano sotto l’aspetto del coordinamento; la vocalità in generale non fa difetto, ma quello che se ne percepisce sono solo gli aspetti tecnici.
Sicuramente non era il caso di caricare di sovrastrutture etiche e sociologiche un’opera nata come leggera e briosa, che forse all’epoca poteva anche avere la valenza di critica bonaria alla pratica del matrimonio combinato, cosa che ai giorni nostri è invece argomento debole in questo contesto. Il divertimento puro dovrebbe prevalere, lasciando casomai sotteso, in filigrana, tutto il resto. La sala si mostrava equanime, tributando acclamazioni ai cantanti negli episodi di bravura, ma applaudendo fiaccamente la fine del primo atto; applausi per tutti alla fine, in omaggio alla bravura dimostrata, non però quel tripudio che di solito suscita un’opera come questa, fatta per conquistare il pubblico piuttosto che per soddisfare il milieu intellettuale.
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