Si fa tanta discussione ogni qualvolta che sulle scene liriche compaiono allestimenti d’opera con regie che aggiornano trame e ricollocano la narrazione del libretto in una situazione di contemporaneità, con inserimenti di temi tratti dall’ attualità. Come sulla necessità di un rinnovamento del melodramma dal punto di vista drammaturgico. Situazioni che suscitano perplessità, critiche e opposizioni da più parti, sia dal pubblico che da alcuni settori della critica, nonché tra gli stessi addetti ai lavori facendo emergere feroci distinguo su tale approccio drammaturgico. La trasposizione alla contemporaneità, indicate con il termine ” Teatro di regia” è abitudine consolidata dei teatri d’oltralpe, e timidamente praticata nell’area latina (Spagna e Italia) dove si richiede ancora un saldo ancoraggio alla tradizione scenica. Un tentativo di rinnovare la scena della lirica. Eppure episodi che risalgono alla fine degli anni ’70 e inizio anni’80 (vale per tutte le regie di Luca Ronconi) dimostrano come tale pratica di rilettura sia stata attuata e largamente praticata nei teatri lirici italiani, perseguita da direzioni artistiche con risultati alterni, dove tutto dipendeva dalla qualità del progetto se affidato a maestri del teatro e del cinema internazionale. Spesso ciò che vediamo sulle scene di oggi non sono altro che riproposte di intuizioni di quasi mezzo secolo fa.
Ken Russell (1927-2011) fu geniale regista di cinema e discusso regista di teatro, visionario ma anche conoscitore della musica, confermata con una serie di biografie di grandi artisti quali L’altra faccia dell’amore (The Music Lovers, 1970), su un Čajkovskij problematico alla ricerca di un proprio equilibrio spirituale, La perdizione, (1974) dove descrive un Mahler sognatore e immaginifico con salti temporali nella cultura germanica fin dentro la cultura nazista, Lisztomania (1976) dedicato a Franz Liszt, idolatrato delle donne con tanto di un Wagner/Mostro nazista con mitragliatrici, e soprattutto scene comiche-demenziali senza senso con Papi e ebrei.
“L’opera è proprio come i musical, solo la musica è migliore, e se sono prodotti correttamente, sono molto più eccitanti. Ho sempre cercato di rendere l’opera una storia umana in modo che le persone si sentano coinvolte emotivamente”. Con queste parole del 1987, Ken Russel definisce il suo rapporto con l’opera lirica come empatia del pubblico verso i personaggi. Ne emerge di conseguenza il suo approccio non conforme al melodramma e alle sue storie con cui Russell riproponeva la vicenda ricercando a suo modo un rispetto profondo per la storia raccontata dal libretto. Come regista lirico, Russel comparve sulle scene italiane in tre anni dal 1982 al 1984, a Firenze, a Spoleto e allo Sferisterio di Macerata sotto la gestione di Carlo Perucci.
Nel 1982 Russel venne chiamato al Maggio musicale Fiorentino per la regia di Rake’s progress di Igor Stravinskij (Teatro la Pergola 18 maggio 1982). Il regista proponeva con la sua regia attualizzata una Londra dominata dal governo conservatore di Margareth Thatcher, volendo far riflettere sul decadimento morale del tempo con le sue vicende di lussuria e delinquenza, capovolgendo gli orientamenti di fondo i motivi dell’opera stessa avevano fatta nascere il progetto stravinskiano, come un atto di nostalgia nei confronti del melodramma sette-ottocentesco. Una visione temporale che il librettista W. Hugh Auden e il compositore avevano intessuto con il Settecento, visto come un’ epoca di rottura, spregiudicatezza, distacco dalle superstizioni e dai falsi miti, un’ epoca che viene ripresa dal compositore russo nella riproposta delle forme musicali e dall’iconografia derivata dalla Londra raffigurata dal pittore Hogart. In tutta fretta, lo scenografo, nonché regista d’arte, Derek Jarman realizza bozzetti a collage dove mostra la trasposizione nella Gran Bretagna degli anni’80, seguendo le indicazioni di Russell per il quale le dinamiche sociali dell’Ottocento fossero considerate estranee agli spettatori d’oggi.
Una messa in scena che ha sollevato una lunga sequelle di interventi contrari a tale aggiornamento tra l’altro di un opera di per sé contemporanea. Gösta Winbergh interpreta Tom Rakewell (il libertino) e Cecilia Gasdia interpreta Anne Truelove, Nick, il diavolo, è interpretato da Istvan Gati. Tom, il protagonista si aggira in palco con un walkman, sedotto da Nick, che percorre la sua carriera tra ricchezze e lussi fino a condurlo al suo suicidio nella stazione Angel” della metropolitana di Londra, un nome e un destino. Il tutto tra punk, stazioni di benzina, spazzatura attualizzando quello che in realtà era il mondo nascosto della Londra settecentesca, sporca e puzzolente. L’attenzione del pubblico non è tanto richiamata dall’ efficienza dell’esecuzione musicale quanto dalla sua regia ripensata in chiave provocatoriamente moderna. In realtà lo spettacolo appare condotto con estrema coerenza da un estroso e abilissimo teatrante, ma senza suscitare quei larghi consensi nemmeno in quei settori della critica che di solito erano propensi anche a rivisitazioni audaci. Non convince Duilio Courir, del Corriere della Sera che rimprovera alla regia di essere rimasta in superfice e di non aver indagato la partitura in questa immagine di una Londra contemporanea attraversata da punk, rifiuti accatastati tra droga, siringhe e sesso, ma riconosce che la direzione musicale e la compagnia di canto hanno dato una prova di assoluta eccellenza. Come non convince nemmeno Bruno Cagli che su Paese Sera accusa Russell di non aver nemmeno tentato di andare oltre le righe di un bieco conformismo da teleschermo: “non solo la regia può essere trasportata senza varianti in una qualsiasi altro lavoro e le stesse scene potrebbero servire per il Trovatore come per la Bohème o qualsiasi altra opera Russel abbia in odio, ma tutto ciò che si è visto è già arcinoto”. Dello stesso tono Leonardo Pinzauti (La Nazione), certamente non un conservatore, che “accusa fastidio per tutti i presupposti antimusicali tra l’altro venuti da un uomo di spettacolo di non comuni capacità, accresciuto per tutti gli innesti consumistici (sesso, nudità riferimenti alla quotidianità), tanto da fagli affermare la necessità almeno per qualche anno di “un periodo obbligatorio di astinenza: con le opere in forma di oratorio e i registi a far altri mestieri”. Quanto a Piero Buscaroli (Resto del Carlino), lo spettacolo gli sembra un coacervo di alcune cose divertenti, molte volgari, moltissime provinciali. Per Rodolfo Celletti, (Musica Viva, 1982, n. 7/8) non si trattava altro che una riciclo di luoghi comuni sociologici sull’alienazione e sul consumismo accusando i dirigenti del teatro di aver perduto la fiducia nei valori della musica scenica e, sprovvisti di senso critico, di affidarsi completamente all’intellettualismo dei registi d’opera.
Salva la direzione di Riccardo Chailly, che però manca del lato grottesco e corrosivo della musica stravinskiana. Non risparmia critiche alle voci: della Cecilia Gasdia (Anne) “bene cantò, discretamente si mosse, ma né lei ha valorizzato molto la parte, né la parte ha consentito a lei d’emergere“.
In una breve intervista rilasciata a Lorenzo Arruga, a corollario dell’articolo di recensione, Russel sostiene che la regia di Rake’s progress abbia una logica.
A. In teatro erano tutti preoccupati per le allusioni. Si parlava che volesse mettere in scena la signora Thatcher.
R. Certo che c’è. é la Baba la Turca
A. Ma perché? Che cosa ci può dire della Signora di ferro?
R. Non posso parlare. Siamo in guerra (Guerra delle Falkland)
A. Parte questa, Lei crede che si capisca ogni sua intenzione ed allusione
R. Senz’altro quella di non fare annoiare, e di creare immagini direttamente sulla musica
A. Qualcuno dice che non si sa mai se Lei sia un regista da abbracciare o da bastonare
R. Tutt’e due le cose mi vanno bene
A. Ma lei ama Stravinskij?
R. Quando mi hanno chiesto di fare la regia d’un’opera, m’ha deluso che fosse del nostro secolo. Poi ho cominciata a pensarla ambientata oggi e non mi sono annoiato neanche un po’!… Certo che amo Stravinskij anche sa ad altri musicisti mi sono dedicato di più…I miei film hanno successo. Ma non si fidano tanto di me, i produttori. Sto cercando il finanziamento per un film su Beethoven, e per ora non trovo chi me lo assicuri: chi vuole mai che mi dia soldo per fare un film su Bruckner?”
L’esperienza di Russel nel mondo dell’opera prosegue con altri allestimenti, sparsi per il mondo:1983 Madama Butterfly (Puccini), 1984 Italiana in Algeri (Rossini) 1984 La Boheme (Puccini) 1985 Die Soldaten (Zimmerman) 1985 Faust (Gounod) 1989 Mefistofole (Boite) 1992 Princess Ida (Gilbert and Sullivan) 1993 Salome (Richard Strauss). Due opere non ce l’hanno mai fatta a venire alla luce: Il Tannhãuser di Wagner che doveva essere programmato per Ginevra nel 1985: “Lo vedo come un viaggio psicologico-schizofrenico nella mente di Wagner” e Eugene Onegin di Čajkovskij richiesto da Lorin Maazel all’Opera di Stato di Vienna nel 1985, sulla base delle suggestioni del film biografico su Čajkovskij.
Prosegue la sua esperienza in Italia negli due anni successivi. Madama Butterfly di Puccini andò in scena nel 1983 a Spoleto, Houston e Melbourne, come debutto americano di Russell nell’ambito del Festival Opera dei due mondi, con un cast tutto americano che includeva Catherine Lamy nel ruolo di Butterfly, Robert McCauley nel ruolo di Pinkerton, Robert Galbraith nel ruolo di Sharpless e Komiko Yoshii nel ruolo di Suzuki. Il risultato che ne deriva è versione cinica e decisamente anti-americana dell’opera, realizzata dallo scenografo Richard McDonald, costumi di Ruth Meyers, diretta da John Matheson, una Butterfly trasformata in un bordello che può lasciare i puristi con la schiuma alla bocca. Eppure, nonostante l’audace aggiornamento di Russell della trama di Puccini del 1904 (derivata da un dramma di David Belasco del 1900), non una singola nota della partitura dell’opera né una parola del suo libretto sono state cambiate: lettura provocatoria, ma ritenuta coerente, travolgente e toccante quanto poche.
“Volevo trasmettere il messaggio di Puccini: il vero scontro tra Oriente e Occidente. Voglio dire, penso che il pezzo fosse profetico. Perché, per esempio, avrebbe dovuto scegliere Puccini di recarsi a Nagasaki? Avrebbe potuto scegliere centinaia di altri posti in Giappone. Bene, quando l’ho visto, il resto è andato a posto…dalla bomba e sono finito in un bordello “. La scelta di Ken Russell include Madama Butterfly che mette una maschera di Topolino sul suo bambino per illustrare la sua americanizzazione, alla festa nuziale i marinai portano lattine di birra. Russell termina l’opera con l’esplosione della bomba atomica. Donal Henahan, sul New York Times del 23 maggio 1983 scrive di una regia che prende il sopravvento sulla musica “L’Intermezzo corale e orchestrale che termina il secondo atto, quando Cio-Cio-San e suo figlio mantengono una veglia assonnata in attesa del ritorno di Pinkerton, è uno dei momenti magici dell’opera. Durante questo evocativo interludio, il signor Russell mette su una pantomima da fumetto in cui Butterfly sogna la vita da sposata e di alimentare marito e figlio di Corn Flakes estratti da una scatola enorme e con una bottiglia Coca-Cola alta due piedi, hamburger di dimensioni mostruose. Il pubblico, comprensibilmente, ha riso proprio attraverso la musica. ”
(Bohème, Sfenisterio di Macerata 1984. Foto Alfredo Tabocchini)
L’anno successivo 1984 a Russell riuscì appieno il progetto di scandalizzare del tutto il mondo della lirica. Avvenne allo Sferisterio di Macerata dove firmò l’allestimento della Bohème di Puccini in cui Mimì, interpretata da Cecilia Gasdia, non moriva di tisi ma di overdose di eroina tra ufficiali della Gestapo e donne impellicciate. Scempio o modernità? come l’hanno definita più voci come Patrizio Gerus su Repubblica.
Si gridò allo scempio. Simonetta Puccini e eredi del musicista inviarono diffide al direttore dello Sferisterio Carlo Perucci che ritenne di non riferirle al regista scelto, non nuovo a queste incursioni interpretative che il pubblico italiano aveva già visto. Si apre un discorso sull’intervento del regista d’opera, ma nessuno come ha fatto Ken Russel in questa circostanza era stato pesantemente dissacratore, tanto da far pensare ad un disegna deliberato. Con la scena dominata da una struttura a tre piani, ogni atto viene ambientato in una Parigi in contesti cronologici diversi dall’Ottocento didascalico, epoca del Ballettes Russes, anni’20, occupazione nazista e contemporaneità. Sconcerto per le sfilate di pellicce; sponsor era Fendi, nell’ ultimo atto, omaggio allo sponsor: arte che diventata merce sottolineò Michelangelo Zurletti. Regista deluso perché i fischi sono stati troppo deboli o attacchi non troppo sferzanti dichiarando che “il pubblico non ha riflettuto a sufficienza su quanto avviene nel terzo e quarto atto della mia Boheme. Il terzo finisce con due ufficiali in nero della Gestapo, il quarto finisce con venti donne in pellicce nere, in una connessione fra i due atti, una connessine di morte, la morte della nostra civiltà, la morte dell’arte. “Il conduttore era José Collado, il designer era Richard MacDonald e i ruoli erano interpretati da Cecilia Gasdia (Mimì), Elena Zilio (Musetta), Angelo Romero (Marcello), Giancarlo Ceccarini (Schaunard) e Mario Luperi (Colline). Russel qui ha mostrato la sua concezione di un vicenda che può ripetersi in ogni tempo, sempre vera, e ha ambientato Mimì e i suoi squattrinati amici in quattro e poche diverse. Poiché non accade nulla di resistenziale nel copione, sono stati aggiunti episodietti paralleli, tanto da poter schierare Rodolfo tra i patrioti e Marcello tra i collaborazionisti. Nel quarto, Mimì, i suoi artisti di un complesso rock un po’ da strapazzo ai giorni nostri. Mimì anziché consolarsi con il viscontino come nell’originale prende droga e muore, che l’eroina sostituisca la tisi non è molto importante, il guaio è che per compiere un’operazione drammaturgica tale, non si deve far avvertire una tale forzatura: in questo senso la morte è una scelta, nell’altro, originario, è un destino. Ci sono delle forzature come l’entrata di Elena Zilio come Musetta in bicicletta ma in affanno nella sua aria. C’è l’impiccio di mostrare le pellicce Fendi che appaiano un po’ dovunque nell’appartamento sopra Rodolfo come angeli di una morte scura. Polemiche su tutti i giornali. Chi ha vinto è stata Cecilia Gasdia, che fra le genialità disagevoli e capricciose del regista e la professionalità un po’ opaca dei compagnia dimostra musicalità e il suo canto calibrato, cosciente, tenendo alte le ragioni di Puccini e far sentire la generazione di Russel perduta nel fumoso passato
(Lorenzo Arruga, Musica Viva n. 10, 1984).
(Bohème, Sfenisterio di Macerata 1984. Foto Alfredo Tabocchini)
Tra i protagonisti di queste esperienze di lavoro con Ken Russell troviamo il soprano Cecilia Gasdia protagonista nel ruolo di Anne nel Rake’s Progress e Mimì nella Bohème. In un breve colloquio l’artista ci riporta una sua testimonianza della sua esperienza lavorativa con il regista. E’ stata una esperienza positiva per il metodo di lavoro: descrivendoci un Russell con idee ben chiare, attento nei dettagli disposto anche a ripensarli e a rivederli in corso d’opera.
Cecilia Gasdia si sofferma sul primo atto del Rake’s quando Anne decide di partire, in cui Stravinskij le affida un’aria difficile e una cabaletta ritmicamente complicata, con un do acuto finale su salto di settima, aria perigliosa dunque. La regia gli impone come azione scenica di preparare un bagaglio, con tutte quelle azioni minuziose che caratterizzano questo agire, dalla scelta della valigia, gli oggetti, azioni comuni ma difficili da mettere assieme, nel mentre si esegue un ‘aria di tale complessità. L’archivio RAI ci presenta un raro frammento (video) dello spettacolo che permette di avere un’idea del lavoro condotto, estremamente complesso ma studiato nei minimi particolari, dove nulla è lasciato al caso. Soprattutto l’arista ricorda la costante presenza del regista in palcoscenico e il continuo sostegno e opera di convincimento svolto nei loro confronti sulla motivazione delle scelte operate. Non a caso arriva nel 1984 la conferma per la Bohème allo Sferisterio di Macerata. Anche qui lavoro complesso con la scelta di Russell di ambientare questa Bohème con un gigantesco cavalletto da pittore diviso in tre piani dove accadono altri eventi nel resto dell’abitazione oltre allo svolgimento della trama dell’opera, puntando il focus su ciò che accadeva nella soffitta. Nel corso delle prove (quasi due mesi), Russell mutò in alcuni casi opinione sulle sue proprie scelte registiche specialmente su alcune controscene che aveva previsto. Come lui stesso mi disse “no, con questa musica, questa scena non si può fare. Una cosa è certo era entusiasmante lavorare con lui”, afferma la Gasdia. Certamente nel caso della Bohème ci fu un grande sollevamento di dissenso anche per la chiusura dell’opera affidata alla filata delle pellicce Fendi, sponsor dello Sferisterio, che scatenò l’ira del pubblico. Fu scempio o segno di modernità? Per chi ci ha lavorato, con alle spalle altre esperienze nel ruolo di Mimì, non lo ha ritenuto dissacrante anche perché tutto rientrava in una logica drammaturgica, totalmente attinente al libretto fin nei minimi particolari. La conclusione la affidiamo all’artista Gasdia: ” ho avuto a che fare con allestimenti tradizionali de La Bohème che erano uno scempio“.
Nel 1987 Russel proseguì il suo rapporto con il melodramma con la partecipazione ad un film ad episodi dedicato al mondo dell’opera “Aria ” (1987) progetto e produzione di Don Boyd (Gran Bretagna) film collettivo in dieci episodi diretti dai registi Robert Altman, Bruce Beresford, Bill Bryden, Jean-Luc Godard, Derek Jarman, Franc Roddam, Nicolas Roeg, Ken Russell, Charles Sturridge e Julien Temple. La particolarità di Aria consiste ne mettere insieme dieci interventi diversi dedicati all’interpretazione tramite immagini, di dieci opere musicali importanti, tratte dal repertorio del melodramma dal XVII al XX. Si tratta di un esperimento particolare che si pone in rapporto con l’opera secondo modalità nuove, inedite, una interpretazione della musica per immagini nella logica del videoclip. In un tempo piuttosto limitato, bisognava progettare un’architettura di immagini, che trovi nella musica un vicenda parallela, stimoli suggestioni, inseriti in una cornice unitaria offerta dalla romanza Vesti la giubba dai Pagliacci di Leoncavallo, registrata all’interno del Teatro Ponchielli di Cremona. Rispetto alle varie scelte registiche, si possono individuare alcune tipologie di intervento. Vi sono interventi d’impronta apparentemente tradizionale, che si riferiscono a un’aria d’opera, prevedendo l’azione di attori cantanti. Vi sono interventi che si riferiscono sempre all’opera attraverso un’importante e significativa aria in essa contenuta, ma la rendono attraverso un gioco di immagini che non prevede la presenza di attori cantanti, piuttosto un costituirsi di sequenze di immagini in rapporto di risonanza con la musica e con l’opera. Ken Russel legge Turandot di Puccini, l’aria Nessun dorma (video). Troviamo una donna come in un mondo di fantascienza, enigmatico, esoterico.
Muove le braccia come se volasse nell’aria o nuotasse con un volto fatto di applicazioni varie, diamanti, vetri o gioiello: decorazioni dure a darle una immagine di essere di un altro mondo. E’ un mondo onirico, che comincia a trovare un elemento di raccordo con la realtà come quando mani femminili “operano” con attrezzi (da chirurgo ? da orefice?) per maneggiare pietre, vetri. O presenze femminili, con volto velato da una garza (viso velato o richiamo all’uso della mascherina chirurgica). Lei trema, respira ha chiuso gli occhi, pronta a ricevere il colpo; controcampo rapidissimo, che inquadra altra figura maschile, il bacio di lui (il nuovo) chino su di lei; e lei che ci appare con il volto tumefatto stravolto da ferite. E’ incorso così, in questo culmine che annoda storie diverse, il passaggio tra la vita e la morte dove riacquista il senso della realtà ritrovandosi vittima di un grave incidente.
Ora viene soccorsa, l’uomo che l’ha baciata è il suo uomo, viene trasportata in ambulanza. Il corpo è livido, sanguinante. Si intuisce che il rapporto di Russell con questa opera di Puccini è nel segno del freddo e del brutale, la femminilità di Turandot è declinata di là da ogni sentimentalismo, raggelata in una bellezza astratta, che ha orrore della contaminazione con l’altro. Russel la spedisce letteralmente in un altrove, che ci appare enigmatico, di difficile lettura, in cui ella è vittima e protagonista assieme. Ma qui il bacio la libera portandola fuori da quel tunnel che separa la morte dalla vita.
Ancora nel 1987 sulle scene liriche italiane a Genova, al Salone Margherita Russel si cimenta con l’allestimento del Mefistofele di Arrigo Boito. Da giugno 2020, grazie alla segnalazione del regista Nicola Berloffa è possibile prenderne visione sul web. https://www.youtube.com/watch?v=moy3dfHhw20
“Fischi trionfali”, così ha definito Rubens Tedeschi sull’Unità l’esito del debutto dell’allestimento sul palcoscenico genovese, che subì un avvio turbolento con l’abbandono all’ultimo momento del direttore musicale Vladimir Dellman, con la sua sostituzione con Edoardo Mueller. Sibili, urla e strepiti (ampiamente previsti) hanno accompagnato tutta l’ esecuzione dell’opera «Mefistofele» allestito dal regista britannico, non capita dal pubblico che si è trovato ad una produzione che sembrava alternativamente l’incubo di un bambino e una ridicola satira politica ambietrata tra Disneylan e una pantomina nazista con una azione scenica che ben boco trovava riscontro nell’azione musicale e nel libretto.
Orgia iconografica tra Mefistofele moderno chirurgo plastico che rifà i connotati a Faust che si ritrova in una Baviera fatta di danze tirolesi, processioni e danze di robots di latta colorata presi in prestito dalle Guerre Stellari,in mezzo a punk con giacche di cuoio. Per Russell, Hollywood e la Germania nazista confinano idealmente, l’ innamorata Margherita, sedotta da Faust viene a morire nella prigione di una cucina ingombradi strumenti moderni la lavatrice in cui ha annegato il bambino.L’intento di Russell era in fondo, di far divertire e rendere partecipe il pubblico del gioco del teatro il pubblico che ha reagito alla chiamata in causa, fischiando. Il cast ha svolto il suo lavoro, senza entusiasmare, con Paita Burchaladse, Mefistofele, Ottavio Garaventa nella parte di Faust, la Margherita di Adriana Morelli, Elena di Rosella Ligi e la garbata prestazione di Laura Bocca (Pantalis).
Sostanzialmente una prova per rinnovare il melodramma riuscita a metà. Così la conclusione del recensore.