Spoleti, Teatro Caio Melisso, 2-3-4 settembre 2022
La porta divisoria
Atto unico in cinque quadri di Fiorenzo Carpi
Libretto di Giorgio Strehler da La metamorfosi di Franz Kafka
Completamento di Alessandro Solbiati e trascrizione di Matteo Giuliani
Direzione Marco Angius
Regia Giorgio Bongiovanni
Scenografia Andrea Stanisci
Costumi Clelia De Angelis
Luci Eva Bruno
Aiuto regia Biancamaria D’Amato
Personaggi e intepreti
Gregorio Davide Romeo
Voce di Gregorio Elena Finelli/Oronzo D’Urso/Davide Romeo
Padre di Gregorio Alfonso Michele Ciulla, Giacomo Pieracci
Madre di Gregorio Antonia Fino, Simone van Seumeren
Sorella di Gregorio Veronica Aracri, Antonia Salzano
Il gerente Davide Peroni
Prima domestica Elena Salvatori
Seconda domestica Federica Tuccillo
I pensionante Oronzo D’Urso
II pensionante Davide Peroni
III pensionante Giordano Farina
Ensemble del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli”
Nelle giornate del 2, 3 e 4 settembre al Teatro Caio Melisso di Spoleto è andata in scena la prima mondiale de La porta divisoria di Fiorenzo Carpi (1918-1997). L’opera di Carpi, su libretto di Giorgio Strehler, è ispirata a La metamorfosi di Franz Kafka e concepita in un unico atto diviso in cinque quadri, l’ultimo dei quali non venne mai ultimato dal compositore milanese. Il quadro mancante è stato composto per l’occasione da Alessandro Solbiati su commissione del Teatro Lirico Sperimentale, mentre a Matteo Giuliani è stata invece affidata la riduzione per ensemble dell’organico originario (una sessantina di esecutori) che Carpi aveva immaginato per la Piccola Scala di Milano. Sul palco i vincitori e gli idonei del Concorso “Comunità Europea” per giovani cantanti lirici di Spoleto, oltre a quelli selezionati dalla direzione artistica.L’esecuzione di questa pagina di teatro musicale rappresenta un tassello significativo e suggestivo del complesso mosaico della musica d’arte italiana degli anni Cinquanta del Novecento.
La porta divisoria venne commissionata nel 1957 da Victor De Sabata (all’epoca direttore artistico della Scala) per essere rappresentata alla Piccola Scala ma, nonostante numerose riprogrammazioni, non andò mai in scena a causa della sua incompiutezza. Il lavoro presentato è frutto dello studio delle bozze di stampa e dei manoscritti conservati nell’archivio del Piccolo, dove sono presenti anche le parti per canto e piano dell’introduzione, del primo e del secondo quadro (lavoro che solitamente viene effettuato alla fine della scrittura), infittendo il mistero del suo mancato completamento. Costretto a trascurare il suo brillante talento di compositore di musica pura, fagocitato dalle commissioni di musica da palcoscenico, Carpi coglie in quest’opera l’occasione per dimostrare le sue abilità di compositore d’avanguardia. La porta divisoria esula dunque dallo stile cinematografico più conosciuto di Carpi (i più lo ricorderanno sicuramente ne Le avventure di Pinocchio di Comencini) del quale ne rimane però qualche inconfondibile traccia. In queste pagine coniuga le tendenze dell’avanguardia post-weberniana con la musica concreta e il rumorismo sperimentale, assieme a una scrittura vocale ricca di inflessioni parlate e recitazione intonata costellata da rimandi continui all’armonia gravitazionale, ricordi della sua frequentazione della Giovane Scuola di Roberto Lupi. In particolare, nel primo quadro, dov’è anche riconoscibile una citazione di Kurt Weil nel solo per violino, emerge una tendenza ad un certo mimetismo naturalista, espressa sia da rumori presenti in scena di tazze e posate sia da suoni campionati legati alla quotidianità della vita borghese; nei quadri successivi da sfogo ad una sorprendente perizia compositiva pur senza mettere in sordina l’intensa lettura di Strehler. Il quinto quadro di Solbiati propone una conclusione dell’opera coeso dal punto di vista della sceneggiatura ma non per lo stile musicale. La scelta del compositore è stata infatti quella di esaltare la drammaturgia del libretto di Strehler rimanendo fedele al proprio linguaggio personale e scrivendo una scena lirica eseguibile anche autonomamente. Complice un’indipendenza narrativa, questo finale musicalmente riuscito e di effetto, denota una diversa idea di caratterizzazione dei personaggi rispetto a Carpi. Ne è un esempio la Sorella, Grete, che seppure alla fine del quarto quadro inizi già a mutare la sua iniziale essenza affettuosa (“Lo odio”), nella concezione di Solbiati viene marcata da una vena isterica alquanto improvvisa.
Le giovani voci che hanno dato vita a questo spettacolo si sono dimostrate all’altezza, preparate e ben impostate nello stile vocale che questo tipo di scrittura esige. La metamorfosi di Gregorio è realizzata nel primo quadro attraverso l’impiego di tre voci (soprano, tenore e baritono) di Elena Finelli, Oronzo D’Urso e Davide Romeo, per enfatizzare la mostruosità di questo cambiamento. Dal secondo quadro in poi il Gregorio “scarafaggio” si identifica solamente nella voce del baritono Davide Romeo, che supera la difficolta di cantare distante dall’orchestra e riesce a dar voce a questo personaggio nonostante la non presenza scenica. Giacomo Pieracci, nei panni del Padre, ha dato prova di estensione vocale e di abilità nel creare un interessante dialogo con il trombone in sordina nel quinto quadro di Solbiati.
La serata di sabato 3 settembre ha visto un cast leggermente differente rispetto alla prima, durante la quale il Padre è stato interpretato da Alfonso Michele Ciulla che, da baritono, ha cantato senza evidente difficoltà la parte prevista per basso, mettendo piacevolmente in risalto l’ironia grottesca del personaggio.
Simone van Seumeren ha dimostrato una vocalità lirica promettente peccando però di contestualità scenica, qualità invece risaltata dalla Madre interpretata sabato da Antonia Fino. La Sorella, ben presentata sia da Veronica Aracri che da Antonia Salzano, è un ruolo che non emerge mai in maniera esplicita ma di presenza costante, difficoltoso per il suo cambio caratteriale. Davide Peroni primeggia con sicurezza nel ruolo del Gerente, per poi calarsi nel quarto quadro nella parte di Pensionante assieme agli altri due, interpretati da Oronzo D’Urso e Giordano Farina, dando vita ad un terzetto comicheggiante. La Prima Domestica Elena Salvatori si cala con perizia in un ruolo che richiede un canto spoggiato mentre Federica Tuccillo, Seconda Domestica, riesce nell’impresa di cantare da mezzosoprano nella difficile scrittura di Solbiati, che la mette alla prova con un’ampia estensione e staccati virtuosistici.
In buca l’Ensemble del Teatro Lirico Sperimentale di Spoleto “A. Belli” che ha avuto la fortuna di essere guidato da Marco Angius, al quale si deve in larga parte la ben riuscita di questa produzione.
Di particolare pregio la visione della regia di Giorgio Bongiovanni che, con l’aiuto di Biancamaria D’Amato, dello scenografo Andrea Stanisci, dei costumi di Clelia De Angelis e dell’abilità non indifferente alle luci di Eva Bruno, ha esaltato la lettura di Strehler. Sul palco si assiste ad una scena ovattata, ambientata in una famiglia piccolo-borghese nella Milano degli anni Trenta, priva di ornamenti non necessari che si concentra su pochi ma efficaci effetti di luce per la caratterizzazione i personaggi. L’opera si svolge interamente dietro un velo di tulle che divide il pubblico dallo svolgimento della scena, ponendo al centro la vera protagonista, una porta per l’appunto “divisoria”, destinando così alla platea la continuazione del palco e rendendola in tal modo parte della narrazione. Il dramma dell’incomunicabilità che pervade questo lavoro riguarda così anche il pubblico stesso che, ascoltando la voce di Gregorio da un palco centrale sul fondo, percepisce ancora di più la distanza dagli altri protagonisti e il sentimento di marginalizzazione.La metamorfosi kafkiana e l’alienazione dell’individuo non emergono come temi portanti ma viene proposta una meditazione più profonda sull’uomo e sul significato di “diverso”.L’ascoltatore, così coinvolto, sarà quindi invitato a domandarsi chi sia effettivamente il mostro rinchiuso dietro La porta divisoria.