99°Arena di Verona Opera Festival
Verona, Arena, 4 agosto, ore 20.45
Turandot.
Dramma lirico in tre atti e cinque quadri
Libretto di Giuseppe Adami e Renato Simoni
Musica di Giacomo Puccini
Editore Casa Ricordi, Milano
DIRETTORE Marco Armiliato
REGIA E SCENE Franco Zeffirelli
COSTUMI Emi Wada
LUCI Paolo Mazzon
MOVIMENTI COREOGRAFICI Maria Grazia Garofoli
Personaggi e interpreti
TURANDOT Anna Netrebko
IMPERATORE ALTOUM Carlo Bosi
TIMUR Ferruccio Furlanetto
CALAF Yusif Eyvazov
LIÙ Maria Teresa Leva
PING Gëzim Myshketa
PONG Matteo Mezzaro
PANG Riccardo Rados
MANDARINO Youngjun Park
PRINCIPE DI PERSIA Carlo Bosi
Orchestra, Coro, Ballo e Tecnici della Fondazione Arena di Verona
Coro di Voci bianche A.d’A.Mus. diretto da Marco Tonini
Maestro del Coro Ulisse Trabacchin
Coordinatore del Ballo Gaetano Petrosino
“Le infinite ciabatte di Pekino” (citazione di Pong) sono le assolute protagoniste della Turandot nella messinscena di Franco Zeffirelli per l’Arena, ideata nel 2010, ripresa con favore più volte; quel popolo di Pekino, che nell’immediato inizio dell’opera si presenta in scena, quale massa tumultuante, feroce, in attesa del boia, che s’incanta alla visione del giovane principe di Persia, che reclama grazia a Turandot, e che osa ricordarle il giuramento. Masse corali che in questa rappresentazione della Turandot areniana si ergono a protagoniste assolute, dirette con autorità da Ulisse Trabacchin e che si muovono nei piani bassi dell’allestimento immaginifico e fiabesco di Zeffirelli, all’ombra della magnificenza del palazzo imperiale di una “Pekino – Al tempo delle favole”, così dice il libretto di Turandot di Adami e Simoni recuperata da una commedia di Carlo Gozzi. Si può giudicare l’allestimento eccessivo e stucchevole, che ricolloca l’opera al tempo delle favole lontane del tempo e in uno spazio geografico collocabile del “favoloso” (inteso come meraviglioso) Oriente: se al teatro spetta “il fin della meraviglia” e dello stupore, ecco che la sapiente gestione degli spazi teatrali fatta da Zeffirelli, si impone nell’immaginario collettivo come le ricche illustrazioni di vecchi libri di fiabe per bambini. Come ci insegnano le fiabe, o si prendono per quello che sono o disvelano una fantasia emersa dall’inconscio: la narrazione di Turandot della sua ava Lou-Ling, che “da secoli ella dorme nella sua tomba enorme” è emblematica anche di altre possibili chiavi di lettura. Qui il tutto sta al “gran colpo di scena” che giunge puntuale al cambio scena che separa il terzetto dei dignitari dall’entrata dell’Imperatore Altoum: dal buio, tetro e inquietante racchiuso da una paravento in cui si muove il popolo anonimo e cencioso, ecco che si spalanca la luce di un palazzo interamente d’oro, stupendo negli infiniti dettagli e reso ancor più magico dall’invasione di costumi brillanti e coloratissimi dove domina l’oro e l’argento. Sarà cartapesta, gesso, cartone dipinto (o polistirolo), più volte visto e rivisto ma il colpo d’occhio sa ancora suscitare stupore e meraviglia in una perfetta unitarietà tra ricchezza degli apparati scenici e la musica che Puccini offre. E gli spettatori dagli spalti accolgono questa apparizione con ovazioni scena aperta.
L’attesa era anche tutta riposta nella Turandot di Anna Netrebko. Avvolta nel gelo del silenzio nella fugace apparizione del I atto, il soprano russo si impone in Arena in un ruolo di lirico spinto. L’abbiamo ascoltata di recente in Aida, capace di esprimere tutta la liricità della scrittura verdiana, qui invece domina il personaggio con voce robusta, di grande estensione, capace di esprimere la cattiveria con suoni freddi e potenti di forza ma senza incidere nell’urlo o nello spasmo vocale. La Turandot della Netrebko canta anche nella scena degli enigmi, capace di ascendere e discendere nelle annotazioni musicali senza perdere il senso della musicalità e l’orientamento di dove proiettare la voce per farsi sentire. A lei il tributo della serata. Accanto un cast a corrente alternata. Yusif Eyvazov, accanto come sempre era Calaf, sottotono all’inizio dell’opera: allargando troppo la voce, lasciava trasparire una emissione eccessivamente ingolata che lo portava ad declamare piuttosto che al canto. Ma nonostante tutto riusciva a concludere le frasi musicali con efficacia di risultato, come nel finale di Non piangere Liù, iniziata con grande fatica. Con il proseguo dell’opera, procedeva acquisendo più controllo vocale giungendo con sicurezza al Nessun dorma, in piena voce, con emissione chiara e sicura, cosa che gli è valsa il bis richiesto a furor di pubblico. Molto partecipata inoltre l’intesa nel finale con Anna Netrebko, i due sono riusciti a rendere appassionante e credibile anche l’ultima parte, orchestrata da Franco Alfano, che di solito risulta inefficace e scollata dal resto dell’opera grazie anche ad una innovata lettura da parte di Armiliato che ha dato evidenziato una maggiore uniformità alla scrittura con quella di Puccini. Buona la resa della Liù di Maria Teresa Leva, che ha cantato con una buona linea di canto e convinta partecipazione emotiva, opaca la prestazione di Ferruccio Furlanetto in Timur, corretti l’imperatore Timur del tenore Carlo Bosi come il Mandarino del baritono Youngjun Park. Funzionali i tre dignitari Ping (Gëzim Myshketa), Pong (Matteo Mezzaro), Pang (Riccardo Rados) veri deus ex machina di tutta la vicenda tra l’altro elementi sempre presenti in scena nei loro fantasiosi costumi di richiamo all’antico spettacolo dell’opera di Pechino.
Sottotono, per questa volta, la direzione di Marco Armiliato, che si è fatto sfuggire momenti di confusione da una orchestra non sempre ben equilibrata, ma comunque sempre non invasiva rispetto al palcoscenico. Spalti e platea al completo e pieno successo da parte di un pubblico che ha dimostrato con ripetute chiamate la riconoscenza nei confronti della Netrebko e di tutti gli artefici della rappresentazione.