di Nicolò Sordo*
Uno scambio di mail con Babilonia Teatri
Babilonia Teatri è una formazione entrata con passo deciso nel panorama teatrale contemporaneo distinguendosi per un linguaggio che a più voci viene definito pop, rock, punk. Fondata nel 2005 da Enrico Castellani e Valeria Raimondi, che compongono drammaturgie dall’incedere unico, sorta di litanie scolpite nelle contraddizioni dell’oggi, portate in scena con attitudine ribelle. Hanno indagato diverse angolazioni della vita di provincia, cristallizzandola come microcosmo di un dolore universale, affrontato con coraggio dissacrante. Coraggio che è valso al gruppo il prestigioso Leone d’argento della Biennale di Venezia. Babilonia Teatri si caratterizza per il suo sguardo irriverente e divergente sull’oggi che mostra i nervi scoperti del nostro tempo. Per uno stile fuori dagli schemi che intende il teatro come specchio della società e della realtà. Attraverso l’uso di nuovi codici visuali e linguistici esprime la necessità e l’urgenza dell’interrogazione, per far emergere conflitti e tensioni, con ironia e cinismo, affetto e indignazione. (da www.babiloniateatri.it)
Il mio incontro con Babilonia Teatri risale al 2021, quando il mio testo teatrale “Ok Boomer (Anch’io sono uno stronzo)” ha vinto il Premio Riccione Tondelli e gliel’ho inviato proponendo loro di farne la regia. Ormai ci conosciamo da tre anni, “Ok Boomer” è diventato uno spettacolo tuttora in circolazione e anch’io mi sono tuffato nel magico mondo del teatro. Ho pensato di intervistarli prima di tutto perché avevo delle curiosità personali sul loro conto.
Penso che le parole creino la realtà, quindi la prima cosa che vi chiedo riguarda l’origine del nome: da dove viene Babilonia Teatri, quando vi siete dati questo nome? Avete voglia di raccontarmi la scena?
Dovevamo fare uno spettacolo: Cabaret Babilonia. Lo spettacolo è abortito, non ha mai visto la luce. Volevamo parlare di guerra in Iraq, ma non trovavamo il modo per farlo. La compagnia non esisteva ancora. Eravamo un gruppo informale. Da quell’aborto è nata la compagnia e ci siamo presi quel che restava di quello spettacolo non fatto: il titolo, che è diventato il nostro nome. Ci piaceva scegliere un nome che portasse con sé la sporcizia del nostro mondo, le sue contraddizioni, il coacervo di poli opposti con cui conviviamo. Dalle nostre parti l’espressione dialettale – l’è tutta ‘na babilonia – vuol dire proprio questo, qualcosa come – è un gran casino –. Abbiamo scelto che Babilonia, così intesa, rappresentasse il teatro che volevamo fare. Un teatro che ci fotografi senza pietà. A Babilonia abbiamo accostato la parola teatro declinata al plurale perché risponde all’idea che i teatri siano molteplici. Molteplici i modi per farlo, per continuare a reinventarlo, per ibridarlo, scomporlo, decomporlo, renderlo vivo: per stare in ascolto.
Di voi mi ha colpito da subito la (apparente) discontinuità tra l’opera e l’artista. Mi sembra quasi che abbiate una doppia vita, che in scena avvenga una trasfigurazione. Mi sono fatto un trip e ho pensato che ogni opera per voi sia come un viaggio a Babilonia – andare in un luogo lontano da voi stessi. Conducete vite ordinarie ma quando salite sul palco esce una rabbia, una fame, una rappresentazione cruda e chirurgica della realtà. Dov’è la cabina del telefono dove avviene questa trasformazione?
Siamo quello che siamo. Dentro e fuori la scena. Credo che nessuno di noi abbia una faccia sola. Non sempre abbiamo voglia di fare i conti con tutte le nostre facce, riconoscerle, guardarle dritte negli occhi e immortalarle. Più che in una cabina del telefono, anche se siamo abbastanza vecchi per averne nostalgia, ma non così tanto da rimpiangerla, la trasfigurazione avviene davanti allo specchio. Quello che vediamo riflesso non è confortante. Non ha capo né coda. Lo specchio è esploso. Raccoglierne i pezzi, giustapporli, senza la pretesa di rimetterlo insieme, ma con la volontà di leggere le immagini che ci consegna ci piace. È quello che sappiamo fare. È un gusto che ha un che di cinico e di premuroso assieme. Ogni tanto ci si taglia, qualche pezzo è più pericoloso di altri, maneggiarlo fa parte del gioco.
La vostra estetica potente e il vostro stile declamato continuano a lasciare un segno e hanno cambiato qualcosa nel teatro, inutile girarci attorno. Come siete arrivati a capire che il teatro fosse la forma espressiva migliore per voi? Avete sperimentato altre cose?
Il teatro ha bussato. È arrivato lui. Ci ha investiti. Per noi si nutre di tutte le arti. Si nutre di letteratura, di scultura, di architettura, di arte visiva, di filosofia, di cinema, di arte contemporanea, di musica. Il teatro è un puzzle. Creare uno spettacolo è un’opera complessa perché gli elementi da maneggiare sono molteplici. Dare forma dal nulla a uno spettacolo ha un che di alchemico. Spesso all’inizio sale il panico, abbiamo l’impressione di non avere gli elementi che ci servono o sembra impossibile che gli elementi a disposizione possano convivere. Serve tempo perché ogni pezzo trovi la sua forma e il suo posto.
Una domanda a cui mi piacerebbe che rispondeste singolarmente. Qual è il libro (o i libri) che hanno acceso una lampadina all’inizio del vostro percorso? Cosa ancora più utile: ce n’è qualcuno che vi ha acceso una lampadina di recente?
Enrico: quando abbiamo iniziato i testi di Rodrigo García sono stati un taglio nella tela. Netti. Crudeli. Ironici. Parabolici. Brucianti. Scomposti. Divergenti. Poco tempo fa ho letto Harari, il suo modo di guardare il mondo, di leggere la storia dell’uomo e di raccontarla mi ha centrifugato e sconquassato. Consiglierei a chiunque di leggerlo. Valeria: Rodrigo è un amore comune. Se mi sposto ad oggi Carrère ogni volta che lo prendo in mano mi incolla. Segna una strada. Il suo modo di raccontare il nostro tempo, di intrecciare vicende personali e collettive, di ridurre all’infinitesimale la distanza tra finzione e realtà, letteratura e testimonianza per me sono sempre motore di riflessione, argomento di discussione, legna che brucia e che mi mette in moto.
Cos’è per voi fare la direzione artistica di un festival come Pergine? Quali sono i cambiamenti rispetto all’edizione precedente?
Un festival di teatro è una cura speciale. Un modo speciale per prendersi cura di una comunità, di un territorio. È un’iniezione extra di adrenalina. È concentrato di pomodoro. È 1 settimana, 15 giorni, 1 mese o 2 di allenamento intensivo, di studio intensivo. È un abbraccio così stretto che continua a rilasciare il suo calore a lungo. Un festival è un’immersione nel teatro che rilascia i suoi anticorpi nell’arco del tempo, poco per volta, come un seme che germoglia quando è il suo tempo e solo nel tempo si fa pianta. La nostra idea è che dare vita a un festival è molto simile a dare vita ad uno spettacolo. È una creazione. Non si tratta di scegliere alcuni titoli. Si tratta di dare forma a un programma che esprima un pensiero. Un festival deve essere un luogo di incontro, luogo di riflessione e deve essere una festa. Prescindere dal luogo in cui si svolge crediamo sia impossibile. Per il primo lavoro è stato comprendere dove fossimo. Che comunità fosse quella a cui il festival si rivolge. Quali gli attori. Poi abbiamo provato a instaurare un dialogo coi vari soggetti, per mettere in relazione pezzi di società, generazioni, associazioni. Ne è nato un festival che attraversa e si compone di tutte le declinazioni che oggi assume il teatro. Quest’anno il titolo di Pergine Festival 2024 è – Senti come suona –. Un cuore che pulsa è l’immagine del festival. Un cuore che il festival farà risuonare. Senti come suona è un invito a percepire come risuonano dentro di noi le creazioni di artiste e artisti, per mettere in moto le nostre menti, i nostri corpi, le nostre corde. Per pizzicarle, tenderle, accarezzarle e distorcerle. Pergine Festival vuole essere luogo di relazione, di incontro e di confronto: un modo speciale per prendersi cura di una comunità, per crearla. Il festival interroga il tempo presente, lo fotografa nelle sue storture, lussazioni e aritmie. Disegna una panorama multidisciplinare in cui teatro, danza e musica dialogano tra loro e abitano il teatro, le piazze, le case e il castello della città.
*Nicolò Sordo, originario di Colà, località di villeggiatura sul lago di Garda, vive a Roma. Di professione attore. Ha vinto i premi “Corti teatrali in lingua veneta” con “Tajarse Fora” e “NdN – Network Drammaturgia Nuova” con “Camminatori della patente ubriaca”. È vincitore del 14° Premio Riccione “Pier Vittorio Tondelli” con il testo “Ok Boomer. Anch’io sono uno stronzo”. Grande appassionato di stivali a punta e camicie hawaiane, è da poco uscita una sua raccolta di racconti, “Col Angeles”, con lo pseudonimo di Niki Neve.
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