André Comploi nato a s. Vigilio di Marebbe, in Val Badia (Bolzano) ha studiato a Vienna e si è laureato nel 2006 in Musicologia e Scienze teatrali presso l’Università di Vienna e ha conseguito il diploma in Musica sacra presso il Conservatorio dell’arcidiocesi di Venna. Ha ricoperto incarichi di insegnamento presso l’università di Vienna e a Bolzano. Dal 2006 ha lavorato all’opera di stato di Vienna e dal 2010 in qualità di capo ufficio stampa oltre che portavoce del Sovrintendente e coordinatore della comunicazione. Dal 2020 è Coordinatore artistico del Teatro alla Scala sotto la Sovrintendenza di Dominique Meyer.
Qui l’intervista rilasciata a Milano il 13 novembre 2023.
Quando si incontra un personaggio nell’ambito dell’arte con salde origini territoriali si corre il rischio di sopravvalutare queste origini periferiche rurali viste come un limite all’affermazione, come voglia di uscire da un piccolo mondo piuttosto che la solida formazione culturale e musicale di cui le terre alpine e ladine, in particolare, sono testimoni anche rispetto alle molte opportunità formative che offre, in particolare proprio la regione atesina. Quanto rimane dentro di questa specifica territorialità lei originario badiota di San Vigilio di Marebbe?
Lei ha lavorato per 14 anni all’Opera di Vienna, 10 di questi ricoprendo il ruolo di capo ufficio stampa. Dal 2020 è coordinatore artistico del Teatro alla Scala di Milano, di cui cura non solo l’opera ma il complesso della programmazione musicale del teatro milanese. Da Vienna a Milano un passaggio tra due capitali culturali europee: si possono definire come tali?
Le tre branche concerto e Opera e Balletto, per il quale mi confronto con il direttore della sezione, rientrano nelle mie competenze organizzative, come le tournee, come coordinatore artistico curo tutto l’organizzazione musicale del teatro. Vienna e Milano si possono considerare due capitali culturali? Certo: simili per qualità e richiamo artistico ma differenti come organizzazione e come collocazione in Europa. Vienna è un concentrata di attività, 10 mila biglietti di vendita di biglietti al giorno; solo Berlino e in parte Londra possono concorrere con Vienna che sono anche capitali. Milano si può accostare solo in parte a questi modelli organizzavi, anche perché qui, anche se esistono tanti teatri e sale da concerto, esiste solo un teatro d’opera, la Scala, dove le maggiori orchestre internazionali trovano accoglienza. A Vienna c’è maggior concorrenza sulla qualità delle stagioni concertistiche e la vita musicale viene vissuta con maggiore responsabilità e consapevolezza. Del resto Milano non viene ricordata come una città musicale, è ricordata piuttosto come la città della finanza, della moda, dell’economia e poi semmai culturale. Mentre per Vienna la musica è la sola fonte della sua importanza e identità. Diciamo che in Italia le capitali culturali per arte e cultura ce ne sono tante e sono altre come Roma, Firenze, Venezia, o Napoli.
Vienna e Milano sono emblema di sistemi diversi di gestione teatrali diversi: repertorio e a stagione. Quali problematiche comportano tali sistemi organizzativi?
A Vienna, nella sua funzione di teatro di repertorio articolato in riprese e nuove produzioni, ci sono più recite e questo comporta una routine più alta su alcuni titolo, comporta di lavorare al meglio su situazioni musicali che si conoscono, certo si lavora su più titoli quasi 50 a stagione, in quanto si suona quasi a memoria; a Vienna per una ripresa di un allestimento si impiegano 2 settimane, una grande differenza. mentre in un teatro di stagione con al massimo 14 titoli, ci si concentra su un titolo, che viene provato per 3-4 settimane, tra l’altro incastrato tra altre produzioni, raramente ripreso, quindi deve essere gestito al massimo. Una differenza sta anche nell’organizzazione artistica viennese che fa affidamento su ensemble artistici definiti mentre qui in Italia si cerca il migliore per ogni ruolo possibile ma anche se costoso. Adesso con l’Accademia di formazione ormai si coprono certi ruoli, anche lo studio è predominante rispetto alle parti in scena.
Come funzionano le collaborazioni internazionali in un contesto di costi di produzioni e di sostenibilità della spesa teatrale, specie proprio in un teatro di stagione?
Ci sono tante ragioni per fare una collaborazione internazionale: una ragione economica di sostenibilità che per un teatro di repertorio significa che una produzione viene riproposta periodicamente; per un teatro a stagione non è detto che l’allestimento venga riproposto. Un esempio il Peter Grimes di Britten non sarà più replicato nonostante il successo ottenuto, mentre è più facile una ripresa di un Barbiere di Siviglia o di altri titoli di repertorio con allestimenti “in casa”. La collaborazione acquista senso per titoli non di repertorio per esigenze di sostenibilità economica anche sotto altre forme: la cooproduzione, lo scambio di noleggi, (come per la The Tempest di Thomas Ades) e co-comissioni, ossia, commissionare nuove opere assieme ad altre organizzazioni. Questo è stato attuato con l’affidamento a Francesco Filidei, del Nel nome della rosa, che andrà a Parigi nella versione francese (con un sistema similare che permise a Verdi di produrre le versioni in francese del Macbeth Trovatore e Don Carlo per Parigi) con la regia di Michieletto, una produzione che verrà proposta poi Genova. Interessante come si sta muovendo il teatro Carlo Felice di Genova che sta emergendo dal panorama lirico italiano con una sua personalità di programma, grazie al lavoro del Sovrintendente Claudio Orazi e alla direzione artistica Pierangelo Conte che hanno consolidato rapporti di collaborazione. Il problema è anche quello di avere degli spazi scenici teatrali compatibili. Interessante poi i progetti barocchi con il Theater an der Wien; con il Théâtre desChamps–Élysées di Parigi, per la coproduzione del Werther nel prossimo giugno 2024. Ma collaborazioni importanti sono nate ad esempio attorno al progetto della messa in opera del Piccolo principe, commissionato come progetto per ragazzi al compositore Pierangelo Valtinoni che sta riscuotendo un ampio interesse internazionale a significare di come un progetto, nato in casa, sia capace di essere anche esportabile come idea musicale.
Il destino dell’opera lirica si sta muovendo tra i cliché di una visione e lettura tradizionale del libretto e una richiesta di innovazione nei linguaggi scenici e interpretativi anche a costo di snaturare la trama, o a far emergere l’ego del regista quando questo sovrabbonda rispetto alla lettura drammaturgica, tra l’altro in un momento che si sta rafforzando l’indagine musicologia delle edizione critiche dei maggiori compositori del melodramma italiano. Si riesce ad evitare che questo dualismo si trasformi uno scontro ideologico? Ma trova un senso il recupero di storici allestimenti, di recente alla Scala è stato riallestito Le Nozze di Figaro mozartiane per la regia di Giorgio Strehler, considerando che Strehler viene ritenuto vecchio?
Passando all’ambito delle proposte sinfoniche meglio un direttore conosciuto su un repertorio noto o lo sconosciuto giovane su un repertorio desueto?
La cosa migliore sarebbe offrire opportunità ad un giovane di qualcosa di nuovo con un pubblico che non abbia strumenti di comparazione come è una garanzia affidare ad un direttore conosciuto un repertorio consolidato che si propone davanti ad un pubblico che approda al concerto con tutte le sue idee preformate. Per un direttore nuovo meglio in Scala e per lui stesso un repertorio così non conosciuto per non correre il rischio di essere paragonato a qualcun altro: certo che si porre un rischio ma sempre meglio che affidargli un repertorio di routine, classico. Proponendo una stagione di 7 concerti di cui due con coro orchestra si cerca di offrire il meglio di direttori di diverse generazioni cercando di dare spazio a quei giovani che sono noti da altre parti ma non ancora qui: un esempio il russo Timur Zangiev. L’importante e offrire ad un giovane la possibilità di eseguire un repertorio a lui più congeniale, e di uscire dallo schema del consolidato dei soliti noti.
Che significa per lei collaborare con gli enti culturali di Bolzano, quali l’Università, e la Fondazione Busoni e Gustav Mahler Stiftung? Come giudica il valore internazionale di queste realtà musicale regionali?
Così anche la l’Orchestra Haydn di Bolzano e Trento è una buona orchestra ad altro livello tra le orchestre regionali.
L’ importante che la Regione e le istituzioni pubbliche abbiano sempre un occhio di riguardo per sostenere queste entità artistiche di spessore internazionale.
Tanta musica ma poco teatro lirico nella nostra regione Trentino Alto Adige, oltre a quello che è l’esperienza di Oper.a curata da Matthias Lošek. Dalle sue esperienze è possibile che i teatri di Bolzano e Trento riescano a trovare una linea per creare in un circuito lirico nazionale?
E’ difficile fare una diagnosi da lontano e da un teatro come Milano e La Scala. Certo esistono circuito consolidati come quello attivo in Lombardia con la sua organizzazione di allestimenti condivisi tra le città. L’opera è un genere costoso costosa e occorre capire bene come produrre e farla circuitare un in contesto ultra regionale. E’ una questione difficile perché comporta attenzione sui numeri di pubblico e disponibilità finanziarie. Ma per il contesto regionale dovrebbe essere possibile e auspicabile allestire il repertorio lirico che adesso è poco curato se non trascurato. Occorre capire quali sono gli ingredienti, ad iniziare dall’orchestra che c’è ed è preparata, specie adesso che Ottavio Dantone è il suo direttore artistico, ferrato sull’opera, come cercare artisti giovani adatti per quel repertorio e registi nuovi e promettenti che possano lavorare con il materiale a disposizione. Occorre mettere in atto una visione programmatoria, ma capire anche se queste intenzioni ci sono o meno
Un ultima domanda: c’è qualcosa che, tra Vienna e Milano, manca a ciascuno per essere il teatro perfetto e esiste un modello perfetto a cui puntare?
Milano e Vienna insieme sarebbero i teatri perfetti.
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