Nicola Berloffa giovane regista d’opera di Cuneo che si sta affermando nei palcoscenici del mondo, in questi giorni alle prese con l’allestimento della Lucia di Lammermoor al Teatro dell’Opera di Oviedo, cooproduzione con il Teatro dell’Opera di Tenerife dove è stata rappresentata per la prima volta la scorsa stagione, allestimento già prenotato dal Teatro Colon di Buenos Aires.
Sei abbastanza giovane da poter dirci quanti anni hai?
Trentanove
Il cognome che porti ti fa proveniente, con la tua famiglia, dalla terra trentina tra l’altro subendo l’italianizzazione del cognome Berglaufen. Le cronache di Trento del primo dopoguerra indicano i tuoi nonni come una gloriosa famiglia di artigiani che ha fatto scuola a tutti le generazioni future di pasticcieri e caffettieri della città trentina. Poi a Cuneo provincia sempre in montagna. Conservi qualcosa del carattere di gente di montagna?
Forse la determinazione della gente di montagna, ma non c’è solo la montagna nel sangue della mia famiglia, c’è anche sangue emiliano, ungherese e piemontese oltre che trentino.
Il contatto con il teatro lirico è stato casuale o cercato? E’ stata una esigenza di conoscere questo genere di teatro o l’emotività che si genera all’impatto con l’opera ti ha fatto avvicinare al mondo del melodramma?
Per me è stato casuale, in casa mia, sì, si ascoltava musica classica ma non c’era nessun
amante del melodramma. La prima volta che andai al Regio di Torino, in modo sì casuale,
il contatto col mondo dell’opera generò in me uno shock tale che mi portò poi ad avvicinarmi a questo nuovo genere. Da bambino e da ragazzo infatti, c’era in me grande curiosità per le cose nuove, quell’evento mi lasciò così incuriosito, che decisi con determinazione di sudiare questa “cosa nuova” per provare a farla un po’ mia.
Dalle tue interviste rilasciate negli ultimi anni sappiamo abbastanza di te e del tuo percorso formativo presso la scuola di Teatro Paolo Grassi di Milano, un percorso che ti ha portato poi a frequentare Luca Ronconi maestro del teatro cotemporaneo italiano. Cosa hai appreso da lui e dai suoi collaboratori?
Ho lavorato con Luca Ronconi e Ugo Tessitore e di sicuro loro due sono stati fondamentali per me; ho iniziato a seguirli quando avevo 23 anni ma già negli anni precedenti (gli anni del liceo) loro rappresentavano per me la vetta del santuario, quindi trovarmi a lavorare con loro due all’inizio mi impaurì molto. Nelle prime due esperienze con Ronconi e Tessitore loro erano accompagnati da collaboratori come Pizzi, Aulenti, Palli, per citarne solo alcuni, veri monumenti di tutto quello che poteva essere il teatro per un ragazzo che si avvicinava a esso. Ricollegandomi alla prima domanda sulla determinazione, forse è stata proprio quella che mi ha portato a non avere troppa paura e a lavorare sodo. Ho sempre mantenuto, ancora ora, la curiosità che avevo da ragazzo nell’approcciarmi a un nuovo progetto e nel cercare di trovare una forma nuova di lettura (dove ‘nuova’ per me non vuol dire distruggere la drammaturgia originale). Da Ronconi e Tessitore ho imparato ad approcciarmi verso ogni autore in modo ivedrso, e a capire fino a che punto ti puoi spingere in questo mestiere senza cadere nel ridicolo. Per quanto riguarda l’approccio al teatro lirico, in verità io ho sempre concepito l’opera lirica come un genere del teatro, del fare spettacolo in generale, dunque non credo che necessiti di un approccio differente.
Che cosa vuoi che rappresenti un allestimento?
Io voglio che un allestimento racconti una storia che venga letta dal pubblico e che il pubblico venga coinvolto dalla storia raccontata. L’allestimento deve parlare al pubblico, in questo mestiere non puoi dimenticarti che stai lavorando per le persone che saranno poi spettatrici dello spettacolo, che saranno “dall’altra parte”. Nei miei allestimenti ci sono sempre riferimenti storici, letterari, cinematografici nascosti, questo anche per fornire tante e diverse chiavi di lettura per il pubblico.
Che cosa chiedi ai cantanti e al personale coro tecnici che condividono lo spazio scenico?
Unitarietà e uguaglianza, altrimenti lo spettacolo non funziona.
Ho assistito ai tuoi allestimenti Racconti di Hoffmann di Offenbach (2014), Wally di Catalani (2015), Madama Butterfly (2017) e Andrea Chenier (2018) che sono stati accolti con grande favore dal pubblico. Rincorri una ricerca meticolosa del particolare nella ricostruzione degli ambienti. Spesso posponi cronologicamente le ambientazioni delle opere. E il Don Carlos verdiano è una metafora del potere oscuro e assoluto. Che rischio si incorre seguendo tale percorso di trasposizione cronologica che sembra rimanere in sospeso tra l’attualizzazione ambientale e la fedeltà al libretto?
Il lavoro sul Don Carlos è stato un lavoro di genesi lunghissimo, ho impiegato un anno per
trovare l’idea, rimanendo comunque fedele alla condizione drammaturgica dei personaggi.
Quello che volevo raccontare era un dramma familiare in cui si nascondono solitudine, follia, violenza, malinconia, depressione, infatti per me, fin dall’inizio nell’opera verdiana si percepiva una condanna verso l’estinzione dei personaggi. Mai ho trovato ci fosse un appiglio di speranza o una possibile apertura verso il futuro per i personaggi, da lì è venuta l’idea di raccontare una corte (che potrebbe essere dagli Asburgo fino ai Romanov), un po’ anche influenzato dal pensiero di Stefan Zweig.
Dopo un periodo di esperienza all’estero sei Rientrato in Italia con la regia di Andrea Chenier questa volta è un personaggio storico. Come ti confronti con gli eventi storici?
Sarà un personaggio storico ma di storico nel libretto di Illica, a parte il tema rivoluzionario, non è che ci sia molto. Per me Andrea Chenier è un’opera di quadri a oggetto rivoluzionario di puro gusto umbertino. Da parte del regista in questo caso ci deve essere una certa ironia per affrontare soggetti simili, come mi diceva un mio maestro “il ridicolo è dietro l’angolo”.
Lucia di Lammermoor, cosa significa per te questo titolo? Emblema di tutte le eroine che muoiono d’amore. O qualcosa d’altro? E mi pare che questa Lucia ti stia dando soddisfazioni adesso Oviedo con Jessica Pratt per la sua 101esima Lucia. E poi al Colon di Buenos Aires.
Per me Lucia è un’opera di canto protagonista dall’inizio alla fine, Lucia è un capolavoro e i capolavori vanno serviti, questo è il vero lavoro del regista con questo genere di repertorio. Forse possiamo considerare lei l’emblema di tutte le eroine che muoiono d’amore ma la cosa che più mi attrae del personaggio di Lucia è il brutale isolamento malinconico in cui viene buttata all’inizio dell’opera da tutti gli altri protagonisti. Ciò non significa che lei sia una depressa, piangente dall’inizio alla fine, anzi, all’interno dell’opera ci sono delle scene di vera forza, e se non fosse così il personaggio sarebbe noioso.
Il sogno nel cassetto per poter dire ci sono riuscito!
Forse un giorno essere sposato.
Grazie
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