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Vicenza in Lirica. Ecuba di Gian Francesco Malipiero all’Olimpico di Vicenza

11 Giugno, ore 21.00 – Teatro Olimpico
9 Giugno (generale aperta al pubblico)
Ecuba di G.F. MALIPIERO
Ecuba Yuliya Pogrebnyak
Polissena Laura Polverelli
Una servente Graziella De Battista
Ulisse Paolo Leonardi
Taltibio Patrizio La Placa
Agamennone Michele Soldo
Polimestore Bruno Taddia (sostituisce Alberto Mastromatino, indisposto)
Orchestra di Padova e del Veneto
Direttore Marco Angius
Coro Iris Ensemble
Maestro del coro Marina Malavasi

Vicenza in Lirica è tra quei festival che hanno l’ambizione di proporre riscoperte come “Ecuba”, opera in tre atti di Gian Francesco Malipiero amico di Tullio Serafin, che la diresse in prima assoluta al Teatro Reale dell’Opera di Roma nel 1941. “Ecuba” (in forma di concerto), che rientra nel progetto ideato da Concetto Armonico Malipiero, Callas, Serafin maestri del ‘900, andrà in scena al Teatro Olimpico l’11 giugno alle 21

NOTE DI SALA

Con la tragedia in tre atti Ecuba (1941), da Euripide, su propria libera traduzione in italiano, Malipiero mette ulteriormente a fuoco un aspetto cruciale della sua produzione musicale: quello del teatro onirico, iniziata nel 1914 col Sogno di un tramonto d’autunno da D’Annunzio e che quasi contestualmente proseguirà con La vita è sogno (1941, da Calderón de la Barca) e l capricci di Callot (1942, da E. T. A. Hoffmann). È anche drammaticamente simmetrica la tragicità degli eventi cui risale la composizione dell’Ecuba rispetto ai giorni che viviamo oggi, fatti di città assediate e rase al suolo come l’antica Troia, ai cui piedi si svolge l’azione, di violenze che rendono contemporanee le vicende narrate prim’ancora che nell’opera di Malipiero, nelle trame euripidee. L’aspetto visionario dei soggetti classici scelti da Malipiero s’intreccia con la sua poetica e col suo modo di comporre che ne fa un caso unico rispetto ai suoi contemporanei: egli lavora per giustapposizione di immagini sonore secondo una modalità intuitiva che utilizza liberamente i materiali musicali realizzando un tessuto cangiante, fatto spesso di salti armonici improvvisi, di silenzi, di vertigini del vuoto. Malipiero preferisce infatti accostare blocchi sonori indipendenti disponendoli secondo un’imprevedibile successione: ciò produce, su un piano strettamente drammaturgico, dei cambiamenti di umore e di clima improvvisi, sia pure in una concezione fluida e omogenea dei processi discorsivi. Da un punto di vista musicale siamo di fronte a una trasformazione irreversibile della logica discorsiva in cui non si torna mai al punto di partenza ma gli elementi riappaiono sempre lievemente variati in un inestricabile groviglio ai limiti del situazionismo. L’utilizzo frequente di ripetizioni di incisi motivici e di una quasi sistematica duplicazione metrica, lo avvicina molto al mondo sonoro di Debussy, compositore peraltro ammirato da Malipiero e verso il quale doveva provare una sintonia concettuale molto forte. Ciò si nota, per esempio, nelle successioni accordali dell’Ecuba che si basano su una sensibilità immanente, immediata quanto non misurabile in termini statistici e analitici. Ma potremmo citare anche altre affinità, per esempio con Erik Satie nella fine del primo atto e soprattutto nell’inizio malinconico del secondo. Il principio della ripetizione, oltre a determinare una riconoscibilità degli elementi sintattici, viene spesso usato per creare degli ostinati su cui innestare lunghi racconti, come quello di Ecuba ad Agamennone, nel secondo atto, per informarlo dell’omicidio del proprio figlio Polidoro a opera di Polimèstore, omicidio che determinerà l’atroce vendetta di Ecuba e delle schiave troiane (culminante con l’uccisione dei due figli di Polimèstore e del suo accecamento nel terzo atto). La danza funebre che chiude il primo atto, inoltre, permette al compositore di avvicinare un’idea di teatro totalizzante che punti alle origini della rappresentazione senza risentire di tentazioni post-wagneriane e soprattutto allontanando lo spettro della temperie verista, quanto mai estranea ai suoi obiettivi di rinascita della tragedia in musica. Questi obiettivi erano fortemente sentiti dall’inizio degli anni ‘30 e ciò che si identifica come parabola neoclassica in Stravinskij, trovava in Italia, con musicisti come Casella, Respighi e lo stesso Malipiero, un diverso orientamento stilistico e critico, attento agli influssi europei ma anche sufficientemente impermeabile a essi. Bisogna osservare che il libretto dell’Ecuba, al contrario di quello quasi coetaneo de La vita è sogno, presenta alcune ingenuità nel taglio formale e nelle scelte testuali rispetto all’originale euripideo: non dobbiamo dimenticare che la composizione nasce come musica di scena realizzata nel 1939 per le rappresentazioni dell’omonima tragedia a Siracusa, su libretto di Manlio Faggella. Questo materiale originario viene travasato integralmente nell’opera e conoscerà ulteriori successive trasformazioni fino alla scena conclusiva di Polimestore, ristrumentata nella tarda silloge de Gli eroi di Bonaventura (1969). A dispetto di un libretto crudo e realistico, in particolare nella descrizione dello sgozzamento a opera di Ulisse della figlia d’Ecuba, Polissèna, che occupa la prima parte del secondo atto nel racconto tormentato di Taltibio, la vocalità dei personaggi sembra invece andare nella direzione opposta al dramma, verso un declamato sillabico e dialogico da cui sono assenti declinazioni liriche e perfino ariose. Semmai, una ricorrenza di motivi melodici o ritmici legati ai personaggi (le fanfare che annunciano Ulisse o Agamennone, la sinuosità danzante che accompagna Polissena), è affidata invece alle linee orchestrali. Traspare inequivocabile l’impegno coevo nell’elaborazione delle opere monteverdiane e l’attenzione verso una comprensibilità del testo che trascenda intenti meramente descrittivi. Inoltre l’incontro e l’ascolto del Pierrot lunaire di Schönberg nel 1924 non è passato invano: ciò si può riscontrare in alcuni richiami all’intonazione parlata e perfino sussurrata presenti nella partitura che s’incarnano nei deliri a occhi aperti di Ecuba e nelle sue visioni premonitrici, così come in quelle finali di Polimèstore. Non dimentichiamo che Malipiero dedicherà proprio a Schönberg la sua ultima composizione per orchestra, Omaggio a Belmonte (1971) e il legame tra i due andrebbe approfondito, considerando l’intenzione del padre della Seconda Scuola di Vienna di volersi trasferire proprio in Veneto dopo le visite ad Asolo. Il coro femminile che conclude gli atti e divide simmetricamente il secondo e il terzo di essi, presenta caratteri quasi pre-raffaelliti, fortemente diatonici, che ricordano non a caso un lavoro come La damoiselle élue dello stesso Debussy (1887): sono interventi brevi e fuori del tempo e dello spazio, che rispettano la concezione greca di commento alle vicende sceniche e al tempo stesso se ne distaccano in modo metafisico. In questo tentativo di trascendere il mito e nello stesso tempo renderlo attuale secondo l’idea nietzscheana degli eterni ritorni, sta forse la maggiore prossimità tra Malipiero e De Chirico. Non è un caso che l’Orfeide, trilogia composta a metà degli anni ‘20, richiami un costante sguardo del compositore veneziano al tema delle voci d’Orfeo e della rivisitazione surreale del mito in chiave moderna. Forse proprio da questa Ecuba del Teatro Olimpico, e dalla contestuale integrale sinfonica appena avviata a Padova, ripartirà nel 2023 una autentica, auspicata Malipiero renaissance?
Marco Angius

La recensione alla prima rappresentazione del compositore Renzo Rossellini (1941)


Bozzetti di Ecuba di Felice Casorati

Ecuba di G.F. Malipiero (Archivio Teatro dell’Opera di Roma)
Redazione Artesnews

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