Pesaro, VITRIFRIGO ARENA
12 agosto, ore 20.00
AURELIANO IN PALMIRA
Aureliano in Palmira
Dramma serio per musica in due atti di Giuseppe Felice Romani
Musica di Gioachino Rossini
Edizione critica della Fondazione Rossini, in collaborazione con Casa Ricordi, a cura di Daniele Carnini e Will Crutchfield
Direttore GEORGE PETROU
Regia MARIO MARTONE
Scene SERGIO TRAMONTI
Costumi URSULA PATZAK
Luci PASQUALE MARI
INTERPRETI
Aureliano ALEXEY TATARINTSEV
Zenobia SARA BLANCH
Arsace RAFFAELLA LUPINACCI
Publia MARTA PLUDA
Oraspe SUNNYBOY DLADLA
Licinio DAVIDE GIANGREGORIO
Gran Sacerdote ALESSANDRO ABIS
Un Pastore ELCIN ADIL
CORO DEL TEATRO DELLA FORTUNA
Maestro del Coro MIRCA ROSCIANI
ORCHESTRA SINFONICA G. ROSSINI
Produzione 2014, riallestimento
Per il 44° Rossini Opera Festival è andato in scena alla Vitrifrigo Arena di Pesaro il riallestimento di Aureliano in Palmira, con la regia di Mario Martone, che riprende l’impianto del 2014 sia per quanto riguarda le scene (un fondale fisso che evoca il deserto e che lascia intravvedere delle immagini in filigrana, il palco occupato da strutture leggere in materiale povero a realizzare un labirinto), sia per quanto riguarda i costumi, di gusto tradizionale, con i romani in corazza e manto e i palmireni in abiti di foggia mediorientale. Il libretto di Giuseppe Felice Romani non rispecchia pedissequamente la realtà storica e, in funzione di un lieto fine sentito come obbligatorio, fa terminare la vicenda con una riconciliazione del principe di Persia Arsace e dell’orgogliosa regina Zenobia con l’imperatore: “Vincesti. A Roma giuro salda amistà”. Il regista si è orientato a una scenografia che non introduce alcuna discontinuità (analogamente al teatro di Shakespeare), funzionale alla commistione tra il punto di vista storico e quello umano, tra le traiettorie politiche e quelle favolistiche, che induce lo spettatore a creare con la sua immaginazione i mondi evocati dalla parola. Secondo il regista, lo sguardo di Rossini sulle vicende che tratta è prismatico, come se guardasse tutto dal di fuori, analogamente a quanto avviene nelle commedie di Shakespeare.
Consapevole dell’insidia costituita dalla retorica militaresca, Martone ha spostato il focus sul deserto, con la sua povertà e la sua grandiosità, anziché leggere la vicenda semplicemente come scontro di eserciti e di civiltà. C’è la guerra, ma vi sono grandi aperture di notti incantate, centrale è la scena di Arsace tra i pastori, enfatizzata dalla presenza sul palco di alcune capre in carne e ossa, dove anche il testo rievoca il mito dell’Arcadia. Il labirinto racchiude le relazioni tra le persone e la dinamica dei desideri, in una storia il cui perno è l’amore indissolubile tra Arsace e Zenobia, dove Aureliano desidera Zenobia (che la ragion di stato gli imporrebbe invece di schiacciare) e Publia ama Arsace. Martone si è sentito in dovere di restituire alla Zenobia storica la sua fierezza, che nel finale dell’opera rossiniana le è negata: senza toccare i contenuti del libretto, fa terminare lo spettacolo con una didascalia, dichiarando che “Di sicuro, Zenobia non cercò il perdono di Aureliano giurando salda amistà a Roma” e citando “Orientalismo” di Edward Said: “Nella geografia immaginaria creata in Europa è tracciata una linea di confine: l’Europa è forte e ben strutturata, l’Asia è lontana e sconfitta”, concludendo che “Quel confine è ancora segnato col sangue nei deserti mediorientali”. E la guerra ha purtroppo investito anche in tempi recenti il sito siriano di Palmira, teatro di eventi terribili.
Al di là dell’importanza storica di Zenobia e dell’imperatore Aureliano, è la parte di Arsace il cardine della narrazione: interpretata per la prima volta dal celebre castrato Giovanni Battista Velluti, è impegnativa per quanto riguarda l’estensione vocale e predominante come presenza sul palco; nella messa in scena attuale è interpretata con grande bravura dal mezzosoprano Raffaella Lupinacci, formatasi all’Accademia Rossiniana e già presente in svariate edizioni del festival. Nella compagnia di canto si distingue la bella voce del soprano Sara Blanch, anche lei ex dell’Accademia ora intitolata ad Alberto Zedda, convincente come guerriera e come donna innamorata, alla quale faceva difetto solo la regalità che si addice alla statura di Zenobia.
Meno convincente Alexey Tatarintsev nel ruolo del titolo: pur non mancando quanto a vocalità, pareva non perfettamente integrato nell’opera; complessivamente bene gli altri ruoli, di minore rilievo come impegno vocale e come presenza in scena: il comandante dei palmireni Oraspe interpretato da Sunnyboy Dladla, il Licinio di Davide Giangregorio, il pastore impersonato da Elcin Adil e il Gran Sacerdote di Alessandro Abis; Marta Pluda, nel ruolo di Publia, con la sua aria nel secondo atto veniva apprezzata dal pubblico ricevendone generosi applausi.
Assolutamente valida la direzione di George Petrou alla guida dell’Orchestra Filarmonica G. Rossini, compagine che in questa occasione faceva rilevare episodicamente qualche miglioramento possibile nel timbro, ottima la coordinazione del Coro del Teatro della Fortuna di Fano, preparato da Mirca Rosciani; le scene di Sergio Tramonti, i costumi di Ursula Patzak e la gestione delle luci da parte di Pasquale Mari si confermavano come funzionali alle esigenze della regia. Alla compagina di canto va il grande merito di supplire con il fascino delle voci alla carenza d’azione che segna il secondo atto, dove l’opera si regge in pratica solo sulla musica; la regia di Martone restituisce inoltre un ruolo primario ai recitativi (accompagnati da Hana Lee quale maestro collaboratore), la cui importanza era evidenziata dalla collocazione del fortepiano sul palco. Grande successo di pubblico per tutti, con acclamazioni per Sara Blanch, applausi di prammatica per Alexey Tatarintsev, un’apoteosi per Raffaella Lupinacci.
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