Orchestra Haydn Orchester | Auditorium S. Chiara – Trento | 6 marzo 2024, ore 20.30
Orchestra Haydn Orchester di Bolzano e Trento
Francesca Dego violino
Markus Stenz direttore
F. Busoni Concerto per violino e orchestra in re maggiore, op. 35a
R. Schumann Sinfonia n. 2 in do maggiore, op. 61
***
Dopo la pubblicazione della sua nuova estetica musicale (1908), Busoni rifiuta molte delle sue opere precedenti, ma continua a stimare il Concerto per violino definendolo “buono… anche se senza pretese”. Busoni era un interessante amalgama di influenze italiane e tedesche, si potrebbe dire che aveva l’amore italiano per la sonorità e l’amore tedesco per la struttura. Fin dall’età di sette anni compone molto e verso la fine dell’adolescenza viene pubblicato regolarmente. Oltre a due quartetti per archi, i suoi principali doni ai violinisti sono due sonate con pianoforte e il Concerto per violino. Queste opere nascono dall’amicizia con l’illustre violinista olandese Henri Petri, allievo di Joseph Joachim, che lavorò come concertatore, solista e insegnante a Lipsia e a Dresda. In re maggiore, la tonalità dei concerti per violino di Beethoven e Brahms, il Concerto di Busoni intende chiaramente proseguirne la discendenza – è significativo che Busoni abbia scritto le cadenze per entrambi – pur non scendendo mai nella mera imitazione. Si avvale di un’orchestra piuttosto ampia (tre flauti con ottavino, oboi, clarinetti e fagotti, quattro corni, due trombe, tre tromboni, tuba, timpani, percussioni e archi), con una partitura trasparente, con abbondanti melodie cantabili per il solista. L’opera suona senza soluzione di continuità, ma è in tre movimenti ben distinguibili.
Il primo movimento è ricco di temi e evoluzioni. Fin dall’ingresso del violino solista, che riprende il suggestivo motivo di apertura, Busoni offre alla violinista italo-americana Francesca Dego, matura e in dolce attesa, una buona dose di passaggi gratificanti, sempre attivi nel far avanzare l’azione. Il Quasi andante centrale aspira al lirismo slanciato del Larghetto di Beethoven con un ottimo assolo del primo oboe (Gianni Olivieri) che strizza l’occhio all’Adagio di Brahms. Una breve cadenza conduce al brillante Allegro impetuoso, che Busoni descrisse come “una sorta di Carnevale”: il suo emozionante finale invita all’applauso che immancabilmente ne consegue – alla prima a Berlino l’8 ottobre 1897, con il compositore a dirigere la Filarmonica in un programma tutto busoniano, Petri prese cinque chiamate al palco e dovette ripetere il finale. Anche a Trento l’entusiasmo non manca, portando la giovane e generosa solista a concedere ben due bis, da Paganini a Bach. Il suono della Dego e del suo prezioso violino (Francesco Ruggeri – Cremona 1697) è elegante, pulito e consapevole: canta, balla e gioca con la giusta armoniosità e nel finale, più energico, risulta brillante e brioso. Efficace l’intesa con Markus Stenz, che riesce a guidare perfettamente l’orchestra, costellata di nuovi volti, nell’accompagnamento. Ottimi gli interventi del primo fagotto, Alessandro Bressan.
In programma, dopo l’intervallo, la Sinfonia n. 2 di Schumann. Chi scriveva una sinfonia negli anni ‘30 o ‘40 dell’Ottocento si trovava di fronte a una sfida piuttosto impegnativa. Le sinfonie di Beethoven venivano ancora digerite da un mondo variamente ammirato, comprensivo e sconcertato, ma c’era qualcosa di sovrumano nella sfida lanciata dalla nona sinfonia. Chi poteva spingersi oltre? Come si poteva portare la grandiosità strutturale e la potenza metafisica e corale della Nona a livelli più alti di quelli che Ludwig aveva già scalato? Di certo era necessario trovare un approccio diverso alla sinfonia, un modo per rinnovare la forma senza dover emulare la cosmica follia di Beethoven. Verso la metà degli anni Quaranta del XIX secolo uno Schumann, trentenne, si trovava sulla soglia di un nuovo tipo di composizione. Aveva già una significativa esperienza sinfonica ma le ispirazioni per quella che sarebbe diventata nota come la seconda sinfonia di Schumann evitavano la grandiosità sinfonica. Al contrario, Schumann trovò nel contrappunto di Bach la stimolante sfida intellettuale di cui sentiva di aver bisogno dopo anni vissuti all’insegna del suo istinto compositivo. Oltre a rendere omaggio a Bach, la seconda sinfonia è anche radicata nella crisi della vita personale di Schumann. Egli aveva iniziato a sentire i primi effetti dell’infezione sifilitica che alla fine lo avrebbe ucciso; scrisse che la sua malattia – problemi di udito, depressione, vertigini, reumatismi – è impressa nel tessuto del brano. “Il primo movimento è pieno di questa combattività, ha un carattere molto umorale e ribelle”. Eppure ciò che si ascolta all’inizio della sinfonia sembra superficialmente sereno: una fanfara tranquilla, ben resa dagli ottoni, una linea d’archi che si muove senza fine, come una visione lontana della preghiera in qualche cattedrale gotica avvolta nella nebbia. L’umore o la ribellione derivano dal modo in cui le linee cromatiche di Schumann minano l’idea della fanfara, e questo è solo il primo dei conflitti che questo movimento di apertura mette in scena. Schumann scioglie il confine tra l’introduzione e l’allegro principale con una transizione magistrale che ci toglie il terreno da sotto i piedi, e rende l’intero primo movimento ritmicamente e armonicamente instabile, in modo che le melodie che si sentono in superficie siano continuamente sballottate da strane correnti sotterranee e disturbi. Febbrile è la concentrazione di idee in una polifonia di stili che , fusi insieme danno vita a una soluzione sinfonica che è definitivamente propria di Schumann. Dopo l’inizio nervoso e inquieto del secondo movimento, lo scherzo, uno dei trii contrastanti crea un’altra tessitura bachiana, un corale che scompare come un sogno prima che il turbine cromatico lo inghiotta. Il movimento lento è il più contemporaneo – nella sua dolorosa e contenuta emozione – e antico della sinfonia, la melodia principale è basata su un’opera di Bach che Schumann aveva recentemente studiato, l’Offerta musicale. Ma è il finale ad avere la forma più originale. Dopo una marcia, gran parte del materiale si basa su trasformazioni delle melodie ascoltate nel movimento lento. A metà del movimento appare una nuova melodia per la prima volta negli archi, cantando una calma serenità. Un’altra allusione, al ciclo An die ferne Geliebte di Beethoven, musica che originariamente riportava le parole “Prendetele dunque, queste canzoni”.
L’intera seconda sinfonia testimonia uno stupefacente vigore creativo e la forza che Schumann trovò in uno dei momenti più difficili della sua vita. Non si limitò a reinventare il proprio linguaggio compositivo, ma creò un modo alternativo di pensare alla sinfonia. La direzione di Markus Stenz conferisce freschezza, vivacità e chiarezza all’opera, riuscendo a far emergere tessiture pulite e trasparenti, con un fraseggio meticolosamente dettagliato in tutte le parti. L’Adagio Espressivo, lento ed emotivamente intenso, è reso con ottima morbidezza negli assoli dei legni. Il suono dell’Orchestra Haydn Orchester è ricco e sonoro. Le bacchette dei timpani, opportunamente scelte, conferiscono un timbro appropriato e gli ottoni sono chiari e incidono ove necessario. Ottima l’intesa tra il direttore e l’orchestra. Stenz riesce a far suonare l’orchestra in modo perspicace e intuitivo, temperando abilmente la sua interpretazione per adattarsi al suono e ai punti di forza della compagine regionale.
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